
A qualche settimana dalla conclusione della mostra “Apocalypse moi”,
curata da Francesco Aprile ed Alessandra Loalè negli ampi spazi della galleria
Imperial Town a Casarano (Lecce), Massimo Pasca è pronto per l’ennesima esposizione che
lo vedrà protagonista a Pisa, città adottiva durante il periodo di formazione. Le
opere di Massimo Pasca sono gesti artistici spontanei, dove sia nel piccolo o
nel grande formato si percepisce un corale ritmo figurativo ed un caotico senso
del sonoro. Tutti i suoi personaggi hanno un qualcosa da comunicare, in un
qualsiasi modo o linguaggio possibile; segni, gesti ed episodi singolari si caratterizzano
in maniera analitica per le numerose sfaccettature della poetica espressiva di
Pasca. Un’idea pittorica immaginifica, nella quale l’elaborato gusto “pop” dell’artista,
s’armonizza brillantemente tra realtà e fantasia, immaginario collettivo e
denuncia socio-culturale. Quella di Pasca è un’esperienza iconico/narrativa
invitante e stimolante che come racconta l’artista: “appena t’ho fatto annusare il mio lavoro devo subito darti il secondo
livello, farti vedere la pentola con il sugo, da cui arriva il profumo, se tu lo sai assaggiare ed apprezzare sei arrivato al terzo livello
poi, come nei video games, c’è il mostro
e tocca a te”. Una breve chiacchierata per conoscere meglio le sue opere, la mentalità
dell’artista ed il rapporto con la cultura artistica salentina.
Terminata Apocalisypse Moi, qual è stato il “significante”
dell’esposizione?
Diciamo che è strettamente correlato al significato! Un bel Boom!che è
anche molto fumettoso.
Qual è l’origine figurativa nelle tue
narrazioni?
I quadri e le illustrazioni sono
principalmente di due tipi, quelli che nascono da un’immagine fulminante che mi
passa per la testa e intorno alla quale ruotano una serie di elementi
catartici, e quelli dove l’origine viene
annullata, dimenticata perché è frutto di un processo catartico e sognante,
che accade soprattutto nei live painting, dove giro e rigiro il quadro mi perdo
e mi ritrovo anche grazie alla musica. Nel primo caso le immagini devono essere subito riconoscibili soprattutto nella
loro figura principale, devono “Popurlare”nelle orecchie di chi “ascolta”.
Evito che il disegno sia accademico, “corretto” e preferisco mettere a
frutto il lavoro che ho fatto per diversi anni soprattutto intorno alla fine
degli anni novanta quando ho praticato i territori dell’informale, anche nei
live painting, e che oggi cerco di fare
attraverso lo studio del segno. Raramente faccio una bozza e praticamente mai,
uso la matita.
Con quali occhi hai visto per la
prima volta “Tuttomondo” ?
Arrivai a Pisa nel 1994 e la prima volta che vidi Tuttomondo conoscevo
già Keith Haring, frequentando già un
contesto fatto di musica posse, rap, reggae e writing anche se fra molti dei
miei amici non era considerato un vero e proprio writer perché dipingeva a pennello. In seguito
scrissi un articolo su questo lavoro per una fanzine universitaria a cui feci seguire
un articolo sul muralismo messicano. Mi appassionai molto alla figura del
pittore americano tanto che chiesi al
mio professore di Storia dell’ Arte Contemporanea di poter fare una tesi su di
lui, ma mi venne risposto che non era sufficientemente storicizzato. Nella
piazzetta Sant’Antonio, di fronte al murales che oggi ha ottenuto il vincolo
della Soprintendenza ed è stato dichiarato di “interesse storico-artistico
particolarmente importante”, c’era una stazione degli autobus e spesso mi
capitava di perdermi in questo binomio grigiosmog , da un lato con i bus che
partivano, e il colore degli omini di
Keith dall’altro.
Tre anni fa gli ho dedicato un dipinto di grandi dimensioni dove lui (che
aveva definito nei suoi scritti Pisa un
paradiso) e Dante (famosa la sua invettiva contro Pisa) improvvisavano un
braccio di ferro. Poi ho avuto il piacere
di essere intervistato dal giornalista
Carlo Venturini e comparire nel libro Haring a Pisa edito da ETS, un bel
modo di rifarmi della tesi mancata. Fortunatamente ho, per cosi’dire ripiegato, su Pier Paolo
Pasolini.
In che modo il valore semantico del
disegno abbraccia quello cromatico?
E’ un modo molto naturale, mi riesce senza tanti calcoli, uso i colori e il segno lasciandomi
trasportare, faccio un colore e poi lo modifico e lo uso con una certa
rotondità, così come cerco di fare nei disegni. Per seguire un’idea che passa velocemente
cerco di essere morbido, un colore “sbagliato” può rovinare la rotondità di
quel flusso. Quando disegno i quadri monocromatici scelgo il colore di fondo
con la stessa logica, decido senza rifletterci troppo.
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Miao |
In un’epoca in cui nella maggior parte dei casi il significato
dell’immagine è stato brutalmente contaminato, nelle tue opere stringi un
legame iconografico diretto ed a volte celato con i grandi maestri dell’arte, quali
sono le connessioni tra il tuo linguaggio contemporaneo ed i brani figurativi
che hai citato?
Un artista è tale credo, perché si serve di tutto ciò che gli sta intorno
per creare visioni personali.
Io rubo, rubo dalla gente, dalla strada, da internet, dai maestri del
passato, dai miei stessi sogni, dal mio stesso passato. Ma non sono e non mi
sento un Flâneur nel senso baudelairiano del termine. Non vado in giro con il
taccuino d’artista, quelle sono stronzate. Distruggo i miei miti e le immagini
più famose le rielaboro in testa, con una ironia spesso amara, so bene cosa attira
l’attenzione della gente, e il primo passo deve sempre essere attirare l’attenzione. Se
senti un profumo per strada alzi la testa e cerchi di capire da dove viene, se
non trovi nulla continui a camminare.
Ecco, appena t’ho fatto annusare il mio lavoro devo subito darti il
secondo livello, farti vedere la pentola con il sugo, da cui arriva il profumo,
se tu lo sai assaggiare ed apprezzare sei arrivato al terzo livello
poi, come nei video games, c’è il mostro
e tocca a te. Se capisci fino in fondo il mio discorso sono contento, altrimenti hai sempre il primo livello sul
quale giocare o immaginare, o da vivere un attimo e dimenticare. Ho molto
rispetto del mio pubblico. Molti artisti viaggiano sempre da soli, io chiedo alla
gente se interessa salire sul mio treno psichedelico, ironico, visionario. Questo
per me è essere contemporanei. La mia Gioconda ti taglia il pene, Dante si
spara in bocca pur non essendo un imprenditore (altrimenti finisce che in Italia ci sia ammazza solo per
i soldi), Platone e Aristotele della Scuola di Atene di Raffaello diventano
Zeman e Andrea Pazienza, presto toccherà a Biancaneve ed a Andy Wharol. Puoi rielaborare
le immagini più famose ma poi ci devi mettere del tuo ed è molto difficile, ad
esempio, fare scordare la Gioconda e farla diventare qualcos’altro.
In che modo percepisci la musica
durante i “live painting”?
Quando faccio i live painting la musica è come un cerchio, un percorso
sul quale mi sento al sicuro, come un puntino che corre su una pista di
atletica. Da una parte c’è un sound system montato o un gruppo che suona, e
dall’altra il pubblico che ti guarda alla spalle, ho fatto centinaia di live
painting e non mi sono mai sentito in imbarazzo o sotto pressione. Per me è
come avere una struttura sicura con la
quale lottare senza bisogno di vincere. Non ci sono traguardi. In questo
dialogo se così si può chiamare non c’è nulla di oggettivo.
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sudestnew |
Le recenti evoluzioni dell’arte digitale hanno cambiato il modo di
concepire l’immagine figurativa ed il lavoro dell’artista?
Sicuramente. Ma è più facile
accorgersi, almeno per me, dove la tecnologia è al servizio della propria o
altrui creatività e dove è semplicemente fine a se stessa. Il campo della video
art mi sembra il più colpito. La perdita dell’aura dell’opera d’arte di cui
parla Benjamin, azzardo che sia ancora intatta, anche se diversa.
Se ad esempio guardi un mio quadro dal vivo o vedi la foto dello stesso pubblicata
su facebook dovrebbe esserci un abisso, a livello di sensazione trasmessa.
Invece l’aura su Facebook, secondo me potrebbe essere recuperata nello
spazio temporale del fattore sorpresa di
quando viene postata la foto di un quadro. Ma questi sono discorsi che
dovrebbero fare i critici d’arte io mi limito solo alle mie sensazioni. Poi
loro me le rubano (ride).
Da Pisa a Lecce, qual è lo stato
della cultura artistica nel capoluogo salentino?
La situazione non è affatto malvagia. Avendo girato praticamente tutta l’Italia
in lungo e in largo ed essendo stato in un posto bellissimo come la Toscana,
posso dire che nel Salento rispetto a venti anni fa quando sono andato via per
studiare le cose sono migliorate tantissimo. E al sud pochi posti sono cosi
avanti. Il miglioramento c’è stato soprattutto
a livello di presa di coscienza delle proprie potenzialità. Il mondo che mi
sembra più attivo è quello dei video e del cinema, dove ho visto davvero ottime
cose. E gli standard sono abbastanza alti. A livello artistico ci sono realtà collettive davvero interessanti
che si muovono con un’ottica europea, fatta di collaborazioni dove gli artisti
non sono semplicemente creatori ma diventano anche promotori di eventi e
collaborazioni, dove c’è scambio reale e soprattutto non ci sono invidie
inutili, cosa che purtroppo a Pisa riscontravo spesso. Il lato negativo è che molti si sono accorti
che questa strana creatura chiamata cultura è qualcosa che funziona ed è anche
uno specchietto per le allodole, spesso
mi sono trovato davanti a situazioni dove poi in realtà c’è solo una
scenografia montata, quella si, ad arte, dietro la quale ci sono solo piccoli e
grandi interessi economici o personali. Ma credo che questo accada in ogni
provincia. Io magari sono troppo severo perché per me l’arte è la prima cosa e
le dedico ¾ del mio tempo, ma credo che molti abbiano dedicato più tempo a
guardare film e leggere biografie di artisti che a sperimentare. A livello di
investimenti in cultura qualcuno e
qualcosa di buono c’è , ma bisogna che alcuni prendano coscienza del fatto che
se non ci fossero gli artisti il loro lavoro non esisterebbe , mentre gli
artisti esisterebbero comunque, anche se meno visibili. Da parte loro gli
artisti dovrebbero ascoltarsi di più e smetterla di piangersi addosso. Quelli
che sopporto di meno sono gli ultimi, quelli che pensano di non esistere se gli
altri non li fanno esistere. Magari non esistere davvero!!! Come
diceva bene Carmelo.