domenica 26 settembre 2010

Dove c'è il moro

Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 26 settembre 2010

Dettaglio di San Nicola di Myra

In quest’ultima domenica settembrina ci dirigiamo nelle zone centro-meridionali del tacco “italico” ed a pochissimi chilometri dalla signorile Maglie percorriamo il lungo rettilineo di via Muro che, dal cuore del grande centro cittadino, si congiunge al “campestre sentiero” in direzione del piccolo nucleo nell’agro di Muro leccese.
Il nono mese è quello del proverbio: “Nella botte piccola c’è il vino buono” e non a caso il “detto” sembra essere consono alla storia di Muro poiché nonostante le ristrette dimensioni urbane, l’antico centro presenta un importante patrimonio archeologico, stratigraficamente ben conservato a tal punto da poter scorgere “a cielo aperto” le vicende evoluzionistiche del luogo.
I primi ritrovamenti sono riferibili sia all’età del bronzo che a quella neolitica, caratterizzati anche da numerosi monumenti megalitici sparsi nel territorio murese (queste le cinque testimonianze: Menhir Giallini, quello di Miggiano, quello del Crocefisso e di Trice, ed in fine il Menhir Croce di Sant'Antonio).
Gli altri segni dei successivi insediamenti sono ravvisabili nei resti della cinta muraria, che racchiudeva l’antica città messapica e dai quali deriverebbe il nome del borgo; le mura erano costituite da massi squadrati che si estendevano per circa 4 chilometri comprendendo un’ estensione territoriale di oltre 100 ettari. Nel III secolo a.C. Muro divenne presidio romano,mentre dal 554 d.C. fino al XI secolo perdurò la dominazione bizantina, ma nell’anno domini del 1068 la città di Otranto cadde definitivamente in mano ai Normanni ponendo fine all’egemonia bizantina in tutto il Salento; secondo fonti storiche, nel 924 d.C. Muro leccese subì un duro attacco, sferrato con distruttiva potenza dalle orde saracene; e proprio durante il X secolo invece, pare si procedesse alla costruzione della chiesa di rito bizantino dedicata al vescovo San Nicola di Myra (vissuto tra la fine del III secolo e l’inizio del IV), ma meglio nota con il nome di Santa Marina. La chiesa, edificata nel momento in cui la venerazione del Santo Vescovo era all’apice del culto cristiano,è situata alla periferia meridionale del paese fuori la cinta messapica a poca distanza dalla strada comunale per Miggiano; l’impianto originario databile attorno al IX secolo, è costruito con enormi blocchi di pietra calcarea, la struttura complessiva dell’edificio presenta una pianta a navata unica rettangolare lunga 15,40 metri e larga 5,50 con abside semicircolare sul fondo; il prospetto principale è caratterizzato da un portale centrale incassato sotto un arco, sopra il quale si trova una lunetta liscia un tempo probabilmente affrescata. Di epoca tarda è il campanile a vela rigorosamente in stile romanico, mentre sui muri perimetrali attualmente risultano due coppie di arcate cieche ricavate da due portichetti attigui che un tempo fungevano da entrate secondarie; la muratura delle arcate ha permesso la sovrapposizione di nuovi affreschi di Santi, l’interno della chiesa si arricchisce di un nuovo spazio ossia il vestibolo (vano o passaggio posto tra la porta d'entrata e l'interno di un ambiente); l’unica aula del complesso rupestre è coperta da una volta a botte, tale ambiente è diviso in tre campate con archi impostati su semipilastri addossati alle pareti.
Nel corso dei secoli l’ambiente interno ha subito numerose modifiche architettoniche, a tal proposito si annovera sulla controfacciata la scena dell’Ascensione e di Santa Barbara affiancate ad altre figure che fanno parte dello strato più antico del X secolo. Nella zona dell’abside, anch’essa molto antica, sono visibili le raffigurazioni di sei o di otto santi vescovi, riconoscibili nei Padri della Chiesa Orientale: San Basilio, San Giovanni Crisostomo e San Gregorio Nazianzeno, il sacro gruppo è effigiato secondo il rito greco ortodosso ed ogni singolo personaggio stringe nella mano sinistra l’Evangelario, mentre nella destra accenna al segno della benedizione. Proseguendo lungo le zone laterali troviamo nel primo arco di sinistra un affresco raffigurante una consacrazione di San Nicola diacono; nel secondo invece sono presenti sia dei dettagli (remo di una nave e il volto del Santo) che altri particolari corrispondenti alle storie mariane come quella riferibile al miracolo dell’apparizione del Santo sulla chiglia di un’imbarcazione. Il successivo,affrescato sull’arco, riguarda probabilmente stralci agiografici riconducibili all’episodio in cui Nicola,trattenutosi nella città di Plakoma in Licia, abbatte un cipresso infestato da demoni. In fine il quarto ed ultimo “fresco” si trova nella parte opposta al secondo arco di destra, dove in maniera poco visibile alla destra di San Nicola vi è raffigurato un edificio in decadenza.
Stando all’ipotesi espressa dal docente Falla Castelfranchi dell’Università Salento, i quattro affreschi muresi possono avere una datazione retrodatata all’anno 1043 ed inoltre “sarebbero introdotti da un’altra immagine del Santo che, posto frontalmente alla maniera greca alla base del primo arco di sinistra, sembra voler indicare l’esordio di questo ciclo agiografico”.
Giuseppe Arnesano

domenica 19 settembre 2010

A guardia...

Pubblicato sul il Paese Nuovo il 19 settembre 2010


Leverano la torre federiciana: In anticipo di qualche settimana sull’annuale ricorrenza che celebra il “carminio nettare” del vitigno nostrano, questa domenica ritorniamo nel fortificato ager delle Terre d’Arneo e precisamente nella popolosa cittadina di Leverano. Liberano è di origine greca, ma nel profondo di alcune grotte sono stati ritrovati reperti litici risalenti al neolitico, mentre secondo altre fonti locali, dopo l’azione distruttiva del 538 d.C. voluta da Totila, re degli Ostrogoti e successivamente re d’Italia, gli scampati abitanti degli antichi casolari di Sant’Angelo e Torricella fondarono nel 540 d.C. il primo nucleo cittadino; per quanto riguarda l’evoluzione del toponimo,invece,conosciamo sia il termine primordiale Liberanium che quello successivo vale a dire Liveranum che semanticamente significa zona umida. Anche in questo caso la radice etimologica del piccolo centro è affiancata al nome romano di Liberius, mentre nelle Rationes Decimarum,fonti medioevali datate al 1324, si cita tra gli altri il nome Livorianum. Durante il IX secolo, la località fu conquistata e saccheggiata dai Saraceni, ma venne ricostruita e potenziata sotto la dinastia dei Normanni, grazie alla geniale ed eclettica personalità di colui che venne soprannominato lo Stupor mundi ossia l’imperatore del Sacro Romano Impero Federico II di Svevia. Il borgo cittadino assurse notevole importanza soprattutto nel 1220 quando il fanciullo di Puglia eresse a difesa del rinnovato centro abitato un’alta torre quadrangolare a difesa delle numerose incursioni piratesche provenienti dalla zona costiera di Porto Cesareo. Stando alle fonti dello storico leveranese Geronimo Marciano (1571-1628), la torre risulta essere la più alta di tutta la Provincia e con i suoi 28 metri costituiva, con i fortilizi di Oria, Mesagne e la piccola frazione di Uggiano Montefusco (a pochi chilometri da Manduria), il poderoso blocco difensivo di Terra d’Otranto.
Inizialmente la solida costruzione edificata all’interno delle mura cittadine, in quella che oggi è la caratteristica Piazza Roma, era circondata e protetta da un fossato munito di un ponte levatoio attualmente scomparso; la torre a base quadrata si eleva su di una forma “parallelepipeda”, dove i prospetti si orientano in direzione dei quattro punti cardinali e sono interamente merlati. Per osservare il “ventre tufaceo” della torre occorre raggiungere il lato d’ingresso opposto alla Piazza, dove al suo interno la era suddivisa da solai lignei non più presenti, mentre ben si conserva la sobria copertura ogivale, caratterizzata da costoloni bicromi alternati bianchi e scuri. Da fiero e resistente avancorpo, difensore della popolazione in svariate occasioni, il “normanno torrione” non è riuscito a tutelare se stesso dall’incuria dei numerosi feudatari e dall’implacabile logorio del tempo a tal punto da essere ridotto in un magazzino ed in una torre colombaia. Solo dopo la metà dell’ottocento il “complesso difensivo” venne rivalutato e valorizzato da esimi studiosi come Cosimo De Giorgi ed Ennio De Simone, in merito ai quali fu riconosciuto monumento nazionale nel 1870.
Sarebbe auspicabile che sull’intuito storico-letterario dei suddetti eruditi, i contemporanei studiosi, sostenuti dalle amministrazioni locali, promuovessero un diffuso impegno nella cura di quei polverosi e molteplici monumenti drammaticamente trascurati. Attualmente la torre federiciana si presenta in condizioni conservative discrete, ma poco propensa ad iniziative di carattere turistico culturali.
Giuseppe Arnesano

sabato 18 settembre 2010

E la vita cocumola...

Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 30 maggio 2010

« Un paese che si chiama Cocumola, è come avere le mani sporche di farina e un portoncino verde color limone. Uomini con camicie silenziose fanno un nodo al fazzoletto per ricordarsi del cuore. Il tabacco è a seccare e la vita cocumola fra le pentole dove donne pennute assaggiano il brodo».
(Poesia tratta da “La luna dei Borboni” di Vittorio Bodini)


“…Era il Maggio…” piovoso, e in questa domenica di fine mese raggiungiamo una piccola frazione del comune di Minervino di Lecce, situata nella zona orientale delle serre salentine, a poca distanza dalla costa adriatica di Santa Cesaria Terme e Castro, e conosciuta con il nome di Cocumola.
Il territorio di Cocumola s’adagia tra i secolari ulivi e gli atavici dolmen (Muntarruni e Monte Culumbu) e menhir (Croce e Pizzilonghi-Urpinara) che custodiscono le testimonianze di tempi remoti, dai quali emergono due ipotesi circa l’origine del toponimo, la prima è legata al termine latino “Cumulus” che significa “granaio” poiché nell’antica ed agreste civiltà messapica questo lembo di terra dal sottosuolo calcareo, divenne un centro di accumulo dei prodotti del raccolto. Questi arcaici magazzini scavati nel banco calcare a forma di imbuto capovolto e con pareti circolari e levigate riempite di paglia, erano utilizzate per conservare le provviste nei mesi invernali, sigillate con un enorme blocco di pietra bianca.
L’ipotesi più accreditata sembra essere quella che deriverebbe dal nome di un piccolo vaso di creta la “cucuma” prodotto dalle botteghe artigiane locali. Il borgo, nonostante abbia vissuto all’ombra dei grandi centri limitrofi, è riuscito a persistere all’incedere lento e turbolento della storia, passando dai greci e successivamente al dominio romano, viene consacrato al rito greco durante la dominazione bizantina, attualmente testimoniata soltanto dalla Via di San Gregorio, sulla quale venne edificata l’omonima Chiesa, distrutta in seguito alla latinizzazione del territorio. Nel corso dei secoli il feudo di Cocumola cadde sotto il dominio di numerose famiglie signorili, primi fra tutti i Sangiovanni che ottennero il casale direttamente dal re Guglielmo II di Sicilia, detto il Buono (1153 –1189), discendente della famiglia degli Altavilla.
Nel 1277 il feudo venne spartito in due differenti possedimenti, il primo alla suddetta famiglia, mentre il secondo andò in quota sotto la dipendenza della famiglia Sambiasi; il nucleo cittadino si riunificherà nel XVII secolo e solo nel 1806, anno dell’entrata in vigore del provvedimento sull’eversione della feudalità voluta da Giuseppe Bonaparte governatore del regno di Napoli, che Cocumola fu aggregato a Minervino di Lecce. Percorrendo le quiete vie del centro, caratterizzate dalle scalcinate costruzioni dei tempi che furono, proseguiamo lungo via Italia nuova dove vi è edificata la tardo-settecentesca Chiesa Madre dedicata al santo protettore San Nicola. Il prospetto originario presentava solo il corpo centrale, corredato da un rosone mediano e da una nicchia collocata al secondo ordine terminante in timpano e disposti in asse con il portale maggiore. L’aggiunta successiva delle navatelle laterali, più basse rispetto alla navata centrale, completa la facciata dandole una tripartita scansione dettata dalle alte lesene ioniche. Gli ultimi rifacimenti eseguiti nel 1906 hanno apportato l’edificazione dell’attigua torre dell’orologio. Superata la Chiesa dal prospetto neoclassico, la suddetta via s’affaccia sulla triangolare piazza San Nicola circondata dai settecenteschi e ottocenteschi palazzi signorili; un esempio architettonicamente precedente, caratterizzato da un elaborato portale dalle linee tardo-barocche e, completato da una balaustra, riguarda Palazzo Pasca edificato nella seconda metà del XVI secolo e accorpato ad una torre quadrangolare di fine quattrocento.
Prima di concludere con l’estrema sensibilità del salentino Vittorio Bodini, salutiamo il protettore della cittadina,posizionato al centro della piazza sopra una colonna votiva eretta interamente in pietra leccese per volere degli abitanti di Cocumola nel 1872.
Giuseppe Arnesano




giovedì 16 settembre 2010

Il paese dell'acqua

Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 18 luglio 2010



La vita di un paese, di tutti i paesi, anche per Castrignano nostro, è come un fiume; l' acqua degli altri sembra che passa, e passa pure, ma è sempre quella. Dopo che fa i suoi giri, più pulita, più bella, più fresca e più chiara: è sempre la stessa, ma più ferma e piano piano ... calma da lontano sempre al suo paese torna. "Torna a Castrignano"
Ed io mi fermo qui.

Angiolino Cotardo
Castrignano dei Greci, 15 dicembre 1987
( A.A. Mele, "Cascignanu de li Greci ... Paese nòsciu")

Castrignano dei Greci:
Dalla sponda adriatica “Nel quadrato di Tricase” alla calura dell’entroterra salentino. Questa domenica raggiungiamo Castrignano dei Greci culturalmente situato all’interno di quell’esteso comprensorio conosciuto con il nome di Grecìa salentina. In griko si pronuncia Kastrignàna o Kascignàna, ma l’origine del toponimo “Castrignano” è rimasto sepolto a differenza delle colorite o meno supposizioni che sono riemerse nel corso del tempo. Si è a conoscenza che la conformazione del terreno, favorevole al raccoglimento delle acque piovane, ha facilitato la formazione di vere e proprie grotte naturali, all’interno delle quali si sono sviluppati i primi insediamenti abitativi. Il piccolo centro di Castrignano custodisce numerose “grotte interrate” indicate con il nome di “granili”e caratterizzate da profondi pozzi. Questo sistema di grotte, ossia le "trappituddhìa"(piccoli frantoi) si trovano sia nelle vicinanze di largo San Martino e sia nei pressi di via Pozzi (località parco delle pozzelle) dove troviamo il trappeto di Alfredo Salvatore ed infine nella zona di via San Leonardo ove è localizzato il “trappeto” più antico. Probabilmente questi primi centri abitativi si sono unificati ed hanno dato origine all’antico nucleo principale sviluppato tra il rione “varrata”(attuale largo S.Martino), la cripta Bizantina in largo S. Onofrio e le “pozzelle”.
Altre ipotesi sulla fondazione narrano dell’arrivo di una colonia di cretesi al seguito del condottiero Giapige (Iliade-cap.XXIV), mentre alcune leggende popolari attribuiscono la fondazione del paese a Minosse, un’altra ancora, infine, e forse quella più attendibile, si riferisce all’anno 487 d.C. in cui i Romani conquistarono ed occuparono le pianure salentine istituendo su questo territorio un presidio militare, noto all’epoca come Praesidium Castrinianum oppure Castrinius. Quest’ipotesi è avvalorata dal fatto che l’antico rione “Varrata” che deriva da “Varra”(sbarra) si riferisce a quel naturale sbarramento formatosi dal defluire delle acque piovane che, dalle zone sopraelevate convogliavano nella conca perimetrale identificata come “naturale difesa” del castrum (accampamento) romano, dunque il nome castrignano deriverebbe in primo luogo da Castrum oppure, secondo altri studiosi, dal nome del centurione romano “Castrino”. Infine l'etimologia potrebbe anche ricondurre al vocabolo grecoKastron” che significa castello che lo ritroviamo nella descrizione araldica del gonfalone comunale.
In questa calda giornata dove un vivace venticello si diverte ad arricciare le soffici nuvole,e, dall’ombra di un Pino cresciuto in quel naturale avvallamento del Parco delle Pozzelle, utilizzato fin dall’antichità per la raccolta delle acque piovane grazie ad un raggruppamento di piccoli pozzi scavati nella roccia friabile e denominati “Ta fréata”, che ci incamminiamo per raggiungere fuori dal centro abitato la Chiesa della Madonna dell'Arcona, nota anche come Chiesa della Vergine della Grazia. L’edificio sacro viene edificato nel 1731 nel luogo dove, secondo la leggenda, venne ritrovata un’antica icona bizantina della Vergine con bambino, attualmente esposta in un’edicola in corrispondenza dell’altare maggiore. L’immagine bizantina è venerata dai Castrignanesi sotto il titolo della Arcona; fin dal suo ritrovamento la tavola miracolosa ha donato prodigi ai numerosi storpi ed infermi che si recavano al tempio sacro per devozione, in particolare si ricorda nel catasto onciario del 1725 Donato Cosma primo miracolato. Le inspiegabili guarigioni si moltiplicavano, così in segno di ringraziamento, fedeli e devoti contribuirono, attraverso le molte elemosine, a costruire la chiesa “e si trattiene l'oblato per mantenerla aperta”. L’origine del suo nome deriverebbe sia dal termine grecoArcontissa” che vuol dire Regina e sia dall’antica etimologia del termine Arco, inteso misticamente, come “posto da Dio infra le nubi, segnale di alleanza fra Lui e gli uomini”. La piccola chiesa presenta un sobrio prospetto caratterizzato da quattro paraste raccordate, in sommità da un cornicione di coronamento. Il portale d’ingresso, decorato con motivi vegetali è situato fra le due paraste centrali, al di sopra di questo spicca un timpano ad arco interrotto mentre, in asse con il portale si trova una piccola finestra decorata.
Da questo umile luogo carico di profonda sacralità ci avviamo in direzione di…

Giuseppe Arnesano

lunedì 13 settembre 2010

Alta pietra


Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 12 Settembre 2010

La “chimerica Regione” vorrebbe scindere, secondo antiquate logiche politico-amministrative, quel chilometrico territorio composto sì da variegate anime territoriali che caratterizzano le singole zone del Gargano, delle murgia barese, il canale tarantino, l’antica Brindisi ed il palpitante e avvelenato Salento, senza però tralasciare l’idea di quell’eterno passato culturalmente annodato nei secoli attraverso la Storia, l’Arte e la Tradizione che rende simili i monolitici menhir baresi con quelli dell’entroterra salentino, i bidimensionali mosaici di ispirazioni bizantina, le numerose roccaforti federiciane,i poderosi castelli carolingi e le molteplici chiese e cattedrali che da Foggia a Leuca e da Taranto a Brindisi dialogano attraverso un architettonico linguaggio di stili evolutivi.
E’ragionevole anteporre gli interessi politico-economici di pochi per scindere il suddetto patrimonio storico-artistico della Regione Puglia?

Questa seconda domenica settembrina ci allontaniamo dalla mitica “rupe di Minerva” per fare
tappa nell’en
troterra del Salento orientale, generalmente influenzato d

a ben note “sonorità grecaniche”, ma non propriamente ellenofone come nel caso di Karpignàna, dialettalmente detta “Carpignanu”. Similarmente alle origini toponomastiche degli altri comuni facenti parte della “chimerica Regione”, il nome del piccolo centro è collegato secondo alcuni studiosi, al fondatore nonché centurione romano Carpinius,mentre,stando ad altre ipotesi di m

a
trice messapica il nome Carpignano deriverebbe letteralmente dalla radice karp ossia “pietra” o “roccia”, vocabolo associato al significato di “luogo posto su un'altura”.

Edificato lungo l’antica arteria stradale della via Traiana-Costantiniana, Carpignano conserva testimonianze risalenti all’età del bronzo come i menhir Grassi e il menhir Croce Grande o Staurotomèa ed una sepoltura di età neolitica. Un’altra importante traccia storica collegata all’epoca bizantina, riguarda la Cripta di Santa Cristina risalente tra il IX–X secolo durante il quale i monaci Basiliani fuggiti dall’Oriente si rifugiarono all’interno delle “colonie” di lingua greca. La cripta scavata nel morbido e bianco tufo è dedicata alle Sante Cristina e Marina (detta anche Madonna delle Grazie per la presenza di un’altare settecentesco ad Ella intitolato) ed ospita al suo interno due “cicli pittorici” il primo più antico datato al 959 d.C. e siglato da Teofilatto, mente il secondo risale al 1020 d.C. ed è
firmato da Eustazio. L’ambiente sotterraneo si divide in due zone e probabilmente la prima riguarda endonartece ossia uno spazio riservato ai catecumeni e dedicato a Santa Marina, mentre la seconda è il naòs cioè il locale più interno dell’edificio sacro destinato a contenere l’immagine della divinità e dedicato a Santa Cristina. Al centro dell'abside principale il Cristo Pantocratore è fiancheggiato dalle figure dell’Annunciazione: l’Arcangelo Gabriele e la Vergine Maria; attorno al XIII sec. risalirebbe il trittico affrescato sull'unico pilastro tufaceo rimasto raffigurante: San Teodoro, San Nicola e Santa Cristina.

Uscendo dal paese ci immettiamo con laica devozione sulla Carpignano-Borgagne in direzione del Santuario dalla Madonna della Grotta, legato al culto della medesima ed edificato sul finire del XVI secolo sui resti di un’antica chiesa rupestre dedicata a San Giovanni Battista sita nella zona di Cacorzo. La Chiesa della Madonna di Carpignano viene costruita in seguito ad un episodio prodigioso cronologicamente riferibile al 2 luglio 1568 e legato alla guarigione di tale “Frangisco Vincenti” un anziano storpio e non vedente che riparatosi in una grotta durante un temporale venne miracolato dall’apparizione mariana. Il giorno dopo nel luogo del miracolo tra le macerie della grotta fu ritrovata l’effige della Madonna con Bambino ed in segno di riconoscenza e gratitudine si procedette all’edificazione del Santuario voluto dall’amministratore e primo abate Annibale de Capua. L’impianto ecclesiastico presenta una pianta a croce latina, caratterizzata da tre entrate: una centrale e le altre due laterali di cui una rivolta verso il paese; nel corso del tempo la chiesa divenne un’importante e nota abbazia; la chiesa fu completata nel 1575 come risulta dalla lastra posizionata su uno dei lati di entrata.

Giuseppe Arnesano

mercoledì 8 settembre 2010

Otranto: Pablo Picasso "La materia e il segno. Grafica, pittura, ceramiche e opere grafiche"


Dopo aver omaggiato il segno grafico del maestro catalano Joan Miró, quest’anno Otranto, ripropone un altro grande evento espositivo allestito all’interno delle ampie sale del prestigioso Castello Aragonese, la mostra è dedicata a: “Pablo Picasso – La materia e il segno. Pittura, ceramica, grafica” fruibile fino al prossimo 26 settembre 2010. L’eclettico corpus artistico dell’illustre maestro spagnolo che abbraccia quasi per intero la sua longeva attività, è composto da 83 opere tra ceramiche, oli, pastelli ed incisioni; questo nuovo percorso “narrativo” è curato da Giorgio Pellegrini, docente di Storia dell’arte e architettura all’università di Cagliari e da Daniela De Vincentis, responsabile del Museo della ceramica di Grottaglie.
Gli antichi ambienti situati al piano nobile del poderoso mastio, custodiscono le tematiche espositive distinte tra la sala dedicata alle Opere miste, contenente una selezione di tavole eseguite con la tecnica dell’acquaforte e della puntasecca, realizzate negli anni tra il 1905 e il 1971, le quattordici incisioni des saltimbanques del 1905, il disegno a pastello del 1919 intitolato “Olga’s left profile” raffigurante l’affascinante moglie dell’artista, e la celebre opera ad acquaforte “Il pasto frugale” dove due scarne e malinconiche figure umane si ignorano attraverso un apparente abbraccio confidenziale. Le opere esposte nella sala successiva,eseguite da Picasso nel corso degli anni quaranta durante la permanenza presso Vallauris caratteristico centro della Francia Meridionale, riguardano,invece, la sperimentale produzione di ceramiche; ammirando alcuni di questi variopinti manufatti, notiamo che le tradizionali funzioni di piatti,brocche e vasellame vario si annullano attraverso lo smaltato e coloristico processo creativo del genio picassiano per assurgere a vere e proprie opere d’arte. Addentrati nelle ultime sale, assistiamo alla violenta ed arcaica giostra dei tori, ossia alla Tauromachia, rappresentata attraverso una serie di ventisei incisioni ispirate al settecentesco trattato sulla corrida vergato da Josè Delgrado, ed eseguite da Picasso nel 1957. Nonostante il semplice contrasto tra il bianco foglio e le nere silhouette, lavorate tramite la meticolosa tecnica dell’acquatinta allo zucchero (direttamente lavorata su lastra con una penna o un pennello intinto in una soluzione liquida di zucchero e inchiostro di china; questa tecnica dà effetti di granulazione più uniforme e conferisce al disegno e alle zone campite un valore espressivo di maggiore libertà), Picasso accentua quasi in maniera realista, la vibrante drammaticità delle scene raffigurate, caratterizzate da un animato e collettivo entusiasmo che, diramandosi dal teso confronto fra torero e toro vissuto al centro di una polverosa arena, raggiunge sia gli spalti gremiti e sia i nostri sensi più intimi, rendendoci partecipi dell’elegante e cruento evento.
L’esaustiva ed armonica esposizione picassiana risalta, in maniera ben illustrata e dettagliata, la suddetta produzione “poco nota” al grande pubblico, la versatilità innovativa, e l’instancabile e raffinato estro del maestro spagnolo; di contro, le variegate “installazioni di corredo”, collocate sia all’esterno che all’interno delle restanti sale del Castello, sono state a tratti suggestive come l’installazione dal titolo “Il castello dei destini incrociati”; questa,realizzata tramite una fitta rete di luci e situata sul piazzale Punta di Diamante, rappresenta lo storico sbarco degli albanesi sulle coste salentine. Invece, risultano forzatamente consecutive le altre opere quali, lo sgraziato ed erotico omaggio a Picasso intitolato “Mademoiselle de Otranto” , la mostra sull’astrattismo americano con opere di sessanta artisti d’oltre oceano e la collettiva “Cuba, 10 decimi” realizzata da nove fotografi cubani ed un solo italiano, che tuttavia ha avuto un empatico effetto figurativo crudo e riflessivo sulle reali condizioni dei popoli del sud America. In questo modo, l’intera serie di “esposizioni collaterali” potrebbe risultare complessivamente incomunicabile con l’evento principale,ma se vissuta in maniera singola e distaccata dal nome del grande arista verrebbero maggiormente apprezzata. A mio avviso il monumentale contenitore culturale otrantino dovrebbe correlare una serie di eventi e tematiche similari, didascalici e comprensivi verso tutti. Infine sempre nell’ambito della mostra su Picasso, sono previste delle attività didattiche caratterizzate da due laboratori ludico-creativi intitolati “Che spasso con Picasso!” e “Quell’Asso di Picasso!” condotti da Renato Grilli. Il primo laboratorio, dedicato ai ragazzi ed alle ragazze tra i 7 ed i 13 anni, propone di osservare, giocare ed inventare, prima attraverso una stimolante “passeggiata in musica” tra le sale espositive del Castello e successivamente rientrati nel laboratorio si sperimenta la “creatività”del gioco-artistico. Il secondo laboratorio: “Quell’Asso di Picasso!”,invece, riguarda i ragazzi dai 14 anni in su ed elabora tramite giochi narrativi e di gruppo le esperienze multisensoriali contenute nelle opere di Pablo Picasso, fino a costruire e reinventare materialmente una personale interpretazione della “chitarra picassiana”. Il proposito del laboratorio didattico-creativo è quello di costruire un clima di relazioni attraverso un divertente rapporto induttivo/creativo e tramite esso giungere a delle contingenze culturalmente stimolanti e cognitive sia per il ragazzo che per l’adulto.



Giuseppe Arnesano

martedì 7 settembre 2010

Sulla rupe di Minerva


Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 5 Settembre 2010


Rientrati dalle “Ferie Augustae” riprendiamo il nostro itinerario domenicale lungo i sentieri e le ondulate coste di questa, ancora per poco, affollata penisola salentina. Il sommo poeta latino racconta nell’Eneide l’approdo di Enea in Italia, avvenuto presso quella che era considerata “Castrum Minervae” e che da quell’alto promontorio si ergeva il maestoso tempio consacrato a Minerva,ossia alla dea Atena dei Greci. Di recente proprio su quell’altura rocciosa, sede dell’arcaica acropoli di Castro che domina da sempre quel furioso incontro/scontro tra mare Adriatico e Mediterraneo, sono stati ritrovati gli imponenti resti di un tempio dorico ed una statuetta votiva rappresentante Atena; ciò ha convalidato l’ipotesi che il piccolo centro salentino funse da attracco naturale al virgiliano mito di Enea in fuga da Troia.
Castro è situata nel Salento delle Serre, a metà strada lungo la dorsale adriatica che va da Otranto a Leuca e custodisce nel suo sottosuolo enormi grotte costiere, scenari particolarmente incantati conosciuti con i nomi di grotta Romanelli e Zinzulusa.
Questi “mostruosi” squarci carsici testimoniamo,come nel caso della grotta Romanelli, che la primitiva presenza umana è rivelata sia dai numerosi graffiti parietali raffiguranti figure e disegni stilizzati e sia dal rinvenimento di differenti utensili di fattura umana riconducibili all’età paleolitica. Invece per quanto riguarda la grotta più rilevante del Salento, la Zinzulusa, che prende il nome dall’infinita presenza di stalattiti e stalagmiti all’interno della cavità noti dialettalmente come “zinzuli” ossia “stracci appesi”, si sottolinea il recupero di piccoli frammenti ossei di numerose specie animali ed altre tracce di una civiltà primitiva risalente all’età preistorica, paleolitica e neolitica. Dunque essendo a conoscenza di queste ed altre tracce relative all’evoluzione storica di “Castro” ed emerse nel corso degli ultimi anni grazie anche alla costanza di archeologi e storici, possiamo brevemente ricostruire gli eventi fondamentali che hanno caratterizzato l’antico centro cittadino. Secolari e non propriamente definite sono le origini della città, ma le fonti più attendibili riferiscono che Castro cadde prima sotto l’egemonia dei Messapi e poi sotto quella dei Greci e che da questi ultimi acquisì il nome il “Καστρον” che significa “luogo fortificato”. Nel 123 a.C. divenne una colonia romana con il nome di “Castrum Minervae”. Dopo la caduta dell’Impero romano d’occidente Castro venne soggiogata dall’Impero bizantino e successivamente, durante il periodo turco, divenne un importante centro di frontiera soprannominato “Al Qatara” ovvero il “Castello”.
La città “fortezza”, quindi Castrum, fu sede Vescovile per volere di Papa Leone II dal 682 fino al 1818, mentre nel 1103 per volere della famiglia degli Altavilla, la città venne elevata al rango di Contea. Attualmente il centro storico è un caratteristico borgo medioevale dominato dall’imponente e resistente presenza del Castello “aragonese” e dalle poderose cinte murarie che circondano interamente “Castro alta”.
Il Castello di Castro risale al XIII secolo, ma probabilmente l’impianto primordiale potrebbe risalire ad epoche precedenti a quella di Roma antica; la struttura preesistente venne riutilizzata anche in età bizantina, mentre al dominio angioino risale un documento datato 1282 e conservato nei registri della cancelleria regia di Carlo I d’Angio, dove si commentava la rilevante posizione strategica a difesa dell’intero regno.
Questo raro esempio di fortificazione inespugnabile,dovuta alla naturale posizione “geografica”, venne ripetutamente attaccata dai Turchi sin dal 1460, cosi durante la dominazione aragonese il Conte Giulio Acquaviva, al servizio del sovrano Ferdiando I d’Aragona, decise di rafforzare le difese del castello ed aumentare le truppe “via terra”. Nel 1480 anno dell’assedio idruntino, Castro fu bersagliata dall’esercito turco, il Castello venne semidistrutto ed i 2.000 uomini delle guarnigioni aragonesi comandate da Conte Acquaviva furono accerchiati e sopraffatti.
Nel corso del Cinquecento il castello fu assaltato nuovamente dagli orientali, ma grazie all’intervento della famiglia dei Gattinara che governava la Contea, venne ricostruito e rafforzato nel 1572 e successivamente fu potenziato dal viceré spagnolo don Pedro de Toledo. Qualche anno più tardi, invece, nel 1575 venne commissionato all’architetto senese Tiburzio Spannocchi di ristrutturare sia il Castello che tutta la cinta muraria, aggiungendo un grande bastione difensivo collocato a sud-est per controllare l’ingresso portuale. Nel corso dei secoli successivi, Castro divenne una città insicura e per questo motivo gli abitanti decisero di trasferirsi nell’entroterra, lasciando alla desolazione e all’incuria dell’implacabile tempo la mitica Castrum. Tutt’oggi al Castello si accede attraverso un piccolo portone collocato unicamente dal lato sud all'interno dell'acropoli fortificata, e si possono ammirare la torre circolare, il bastione lanceolato, la Torre del Cavaliere ossia la più alta ed imponente torre dell'intero sistema difensivo, e alcuni ed affascinanti tratti delle cortine murarie.
Allontanandoci dall’alta acropoli, scendiamo a “Castromarina” ed attraversando quell’antico borgo di vecchi pescatori e laboriosi artigiani, s’alza una sussurrante brezza che dolcemente ci confida il luogo di quella naturale baia dove sono ancorate piccole barche di color di cielo, mentre s’apre di fronte a noi, incastonato tra le rocciose“quinte” una paesaggistica scenografia marina, un arcano e leggendario “elemento” che, da queste parti, è ancora puro ed apparentemente immobile nel tempo.

Giuseppe Arnesano

domenica 5 settembre 2010

Tricase: la chiesa di San Michele Arcangelo



Questa domenica ritorniamo a pochi chilometri dalla costa adriatica. Sopraggiunti all’estremità meridionale nella “regione delle grandi serre” entriamo nel “quadrato” territorio di Tricase. Situato geograficamente in una posizione decisamente rialzata a circa un centinaio di metri dal livello del mare, comprende le due principali marine di Tricase Porto e Marina Serra. L’attuale nucleo di Tricase, anticamente conosciuto come “Treccase”, poi “Trecase”, “Tricasi o Tricasium”, sembra sia sorto tra il X e l’XI secolo dall’unione di tre Casali. Differenti sono le due versioni toponomastiche riguardanti la denominazione di questi ultimi, periodicamente narrate e collidenti tra gli storici Antonio Micetti di Tricase e Padre Cappuccino Luigi Tasselli di Casarano. Il primo affermava che i nomi dei tre Casali fossero quelli di Menderano, Voluto e San Nicola, per contro il Padre Cappuccino riteneva, invece, che si chiamassero Trunco, Monesano e Amito Cuti, ma a dispetto delle beghe storiografiche l’etimologia più accreditata traduce il nome “Tricase” come “inter casas” vale a dire, un paese formatosi in mezzo a differenti Casali.
Chiesa di san Michele Arcangelo - Tricase
La nascita di questo nuovo centro, sorto tra altri nuclei abitati, avvenne nell’anno del Signore 1030 per volere degli abitanti che,sentendosi minacciati e spesso attaccati dai barbari invasori, decisero di unirsi sia per motivi si sicurezza e sia per aumentare il numero dei “fuochi”. Il complesso d’interesse storico-artistico, ubicato nei pressi della caratteristica ed architettonicamente suggestiva Piazza Pisanelli, riguarda la Chiesa di San Michele Arcangelo, comunemente conosciuta, sia come tempio Sant’Angelo e sia come “Cappella dei Secondogeniti”, perché eretta nel 1624 a titolo di chiesa ufficiale dei Cadetti di Casa Gallone. L’epigrafe incisa nel fregio della porta conferma, da un lato, il suddetto anno di costruzione del monumento e, dall’altro, la famiglia committente, emergendo così un particolare riferimento a Cesare Gallone secondo Barone di Tricase. Sant’Angelo si distingue per essere nota come una delle “sette perle dell’architettura barocca salentina” anche se il prospetto esterno semi-quadrangolare presenta un’impronta tardo-rinascimentale, intrisa di soluzioni manieriste e di leggere innovazioni baroccheggianti, alle quali si affiancano notevoli elementi catalano-durazzesco, spiccanti sulla zona del portone e in quella del coronamento del frontone al di sotto del quale si scorge un bassorilevo; gli elementi catalano-durazzesco sono rintracciabili esclusivamente in Italia meridionale, a Napoli, in Abruzzo ed in Puglia. Dagli evidenti materiali utilizzati nella costruzione, come il carparo e la pietra leccesa si passa alle dubbie e poco definite attribuzioni progettistiche, considerato che secondo alcune fonti confermate anche dal Paone, l’architetto è identificato con Marcello “Protomastro” da Lecce, mentre secondo gli studiosi Maurizio Calvesi e Manieri Elia la paternità dell’edificio sacro è attribuibile a Giovanni Maria Tarantino di Nardò.Le elaborate evoluzioni barocche dell’interno della chiesa, richiamano alla vista altre raffinate opere d’arte, come nel caso del palco d’alloggiamento per l’organo interamente in legno, e datati ai primi anni del XVII secolo, infine appartengono allo stesso secolo un crocifisso ligneo posizionato sulla porta principale e due tele raffiguranti una la “Vergine Maria Bambina con Sant’Anna e San Gioacchino” e l’altra “Sant’Oronzo”, attribuita al maestroGiovanni Andrea Coppola da Gallipoli.
Giuseppe Arnesano
Altare e particola della volta
Concludiamo con un pensiero poetico del religioso David Turoldo che, affezionato da sempre alla gente di Tricase scrisse:
AMICI DI TRICASE…
Gente di Puglie a Tricase, figli
delle molte fedi che in mezzo a oliveti
dalla lieve ombra, scendete a Leuca,
sperone d’approdo della Luce, e lungo
strade che portano ancora nomi
e vestigia della grande Madre, come
per una vostra Mambre piantate la tenda
alla Quercia Vallonea, e attendete
pur voi i divini messaggeri a recare
le promesse di eternità della stirpe:
figli siete del mito e di una terra
di non mai vinte divinità. E da Calino
vi giunga l’eco degli antichi canti
e come per il poeta al di là della siepe
pure per voi “il naufragar” sia dolce…
Padre David Maria Turoldo
“Un uomo vero, un cristiano autentico” a cura di Francesco Accogli – Edizioni dell’Iride 2002