domenica 31 ottobre 2010

Il miracolo di Gabriele

Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 31 ottobre 2010

Alliste, foto d'epoca
In quest’ultima domenica di Ottobre, il nostro itinerario domenicale prosegue lungo il litorale ionico e precisamente nella zona meridionale del territorio. Percorrendo le poco pronunciate valli e la bassa costiera, raggiungiamo il centro di Alliste, comprendente anche la frazione di Felline le località marine di Capilungo e Posto Rosso. Anche sul terreno di questa piccola ed antica comunità, sono state rinvenute tracce di ataviche frequentazioni umane, come le “grotticelle del Ninfeo” risalenti al Paleolitico inferiore. In base ai numerosi ritrovamenti, pare che la suddetta area denominata “ninfeo”, venne frequentata sia durante il periodo Mesolitico che nell’età Neolitica. Indagando nella remota storia locale veniamo a conoscenza che, durante il II secolo a.C. sotto la dominazione romana, il territorio risultava particolarmente incolto, ma dedito alla caccia mentre il vicino sito, attualmente occupato dalla frazione di Felline, era caratterizzato dall’attività di una fornace,intorno alla quale accrebbe il nucleo urbano di Figline, Felline appunto, derivante dal latino che significa produzione artigianale di ceramica. Per comprendere l’origine “mitica” di Alliste dobbiamo fare riferimento allo stemma comunale raffigurante le ali di un cherubino accompagnate dalla soprastante lettera maiuscola “A” iniziale del nome del paese. Si racconta che intorno al IX secolo, gli abitanti di Felline, per sfuggire ai saccheggi dei pirati, abbandonarono la loro città invocando l’arcangelo Gabriele che, manifestatosi improvvisamente, estese le sue grandi ali protettive portando i superstiti abitanti verso un luogo sicuro. Su quel luogo essi fondarono un nuovo casale ed in ricordo del miracoloso evento lo chiamarono “Allisti” divenuto in seguito “Alliste”. Alcune tesi contrastanti dividono gli studiosi locali sulla maternità del toponimo, poiché secondo alcuni il nome Alliste potrebbe essere riferibile all’aggettivo superlativo greco “kallistos” ossia“bellissima” mentre, altri sostengono che, il nome della città significhi “riunirsi” poiché su alcune carte cittadine risalenti al 1331 vi è documentato il nome “Alitzai” formato probabilmente dall’avverbio greco “alis” e dal verbo “zao”, dalla cui fusione si genera il concetto di “riunirsi”. Un anno fondamentale per la storia del comune fu quello del 1275 in cui si fa risalire la prima citazione del toponimo, quando il re Carlo I d’Angiò concesse al barone Guglielmo Pisanello i feudi del casale insieme a quelli di Racale e Felline. Giunti nella centrale piazza di San Quintino ammiriamo l’omonima chiesa dedicata al santo italo-francese: i lavori di edificazione della chiesa parrocchiale iniziarono nella metà del 1400 e termino nel ventennio successivo, in seguito la facciata esterna fu ridecorata sotto stilemi barocchi intorno al 1872; nel 1978 è stata poi arricchita da un mosaico raffigurante S. Quintino, posto centralmente quasi alla sommità del fastigio. L’interno ha un impianto a croce latina ed è suddiviso in tre navate, particolarmente interessante è la volta a botte decorata con stucchi ed arricchita da lunette sotto la cupola situata questa, all’incrocio della navata con transetto, dove spiccano notevoli bassorilievi raffiguranti i quattro Evangelisti eseguiti dal maestro Ippazio Antonio Rizzo. Un particolare esterno, ma poco visibile è la cupola rivestita interamente da maioliche policrome. In onore del santo patrono di Alliste proseguono i festeggiamenti nel piccolo centro storico, la festa segue tradizioni antichissime vista la data di edificazione del sacro edificio; dopo l’inaugurazione di sabato che ha accolto con il calibrato suono dei bandisti la statua del Santo in piazza,stasera la festa continua con la rituale processione lungo le vie del paese, le colorate bancarelle ed i roboanti fuochi pirotecnici. A conclusione della festa si svolgerà la mattina del primo novembre la grande Fiera mercato vetrina per espositori di tutto il Centro sud del settore abbigliamento, casa, alimentare e zoofilo; in serata l’esibizione della “Grande Orchestra Italiana” insieme a “Gennaro 100% Calabrese”.
Giuseppe Arnesano

domenica 24 ottobre 2010

La carne de lu porcu


Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 24 ottobre 2010



Cripta di Santa Maria della Grotta

Hortus, horti,Ortelle è la destinazione di questa quarta domenica di ottobre. Il territorio del comune precede quello che anticamente era la “rupe di Minerva” ossia Castro. Ortelle, dunque, è situato nell’entroterra sud-orientale a pochi chilometri dalla costa adriatica ed il suoi confini accolgono la frazione di Vignacastrisi nota con tale nome, poiché in passato su quella zona, erano presenti numerosi vigneti competenti alla Contea di Castro.
L’origine toponomastica si costruisce alla latina e diviene hortella che vuol dire piccoli orti. Questa zona territoriale è caratterizzata da appezzamenti poco produttivi ed in alcuni casi anche rocciosi, ad eccezione del piccolo centro, rinomato per la presenza di piccole estensioni di terreni fertili.
La località di Trice custodisce le tracce ellenistiche di Ortelle, poiché da queste parti sono stati rinvenuti depositi di materiale argilloso che confermano lo sviluppo di una produzione di laterizi che probabilmente furono fondamentali per la costruzione del primo nucleo urbano; questi ritrovamenti sono avvalorati anche dalla presenza dei ricchi corredi funerari tra le polveri della necropoli ortellese. Mentre in epoca messapica Ortelle era una cittadina autonoma all’interno del comprensorio castrense, in questo modo acquisì nel tempo, quella condizione di centro residenziale-produttivo, affiancato dalla nota,per importanza ed estensione, città di Vaste.
Secondo lo studioso Maselli, inizialmente, l’intera superficie era frequentata soprattutto dalle famiglie nobili di Castro nei periodi di villeggiatura, fino a quando, dopo l’ennesima invasione turca ai danni della poderosa Castro, quelle sfuggite alle aggressioni si rifugiarono all’interno delle loro residenze estive situate proprio nella vicina Ortelle, ed attorno alle quali germogliò il piccolo comune.
Probabilmente tra il VI ed il XIII secolo presso la località di San Vito, si concentrarono numerosi stanziamenti di origine greca grazie ai quali si svilupparono importanti centri rupestri; un centro ipogeo di particolare interesse, collocato alla periferia del paese in direzione del lungo asse viario dedicato a San Vito, è quello della Madonna della Grotta sormontato da un piccolo campanile a vela. Giunti nei pressi del silenzioso situm, rallegrato dal leggiadro vociare di snelli volatili, visitiamo le stoiche rovine risalenti alla dominazione bizantina. Osservando quel che rimane dell’intero impianto planimetrico, possiamo distinguere le tre navate absidate e l’ampliamento del vano della navata di sinistra, praticato probabilmente insieme ad una seconda scala per esigenze funerarie. All’interno sono presenti tre altari, quello centrale è dedicato alla Madonna delle Grazie, mentre i due laterali ospitano nell’abside di sinistra Sant’Eligio ed in quello destra quello dei Santi Medici. I sotterranei sono interamente ricoperti da altre immagini parietali databili al XV secolo, tra questi altri menzioniamo quello della Madonna con bambino sostenente un uccellino e l’affascinante Trinità con angeli e santi. L’interessante libro del professore Sergio Ortese racconta in maniera scientifica i lavori di restauro nella Cripta di Santa Maria della Grotta di Ortelle.
Questa sera si conclude la secolare Fiera di San Vito, conosciuta come una delle più antiche fiere dell’Italia meridione che affonda le sue radici fin dal XVI secolo.La fiera è da sempre un appuntamento di gaudio tra contadini, commercianti e semplici visitatori, arricchita da abbondanti banchetti rigorosamente a base di succulenta carne suina proveniente dagli allevamenti locali. L’evento, che si ripete da diversi anni, ha ottenuto il riconoscimento di “Manifestazione Fiera Regionale” e rappresenta una ricorrenza imperdibile per espositori, produttori ed estimatori. Durante questa culinaria manifestazione la carne del maiale viene venduta, preparata e servita in tanti modi che ne valorizzano sapore e proprietà.
Giuseppe Arnesano

martedì 19 ottobre 2010

Il Canto di Penelope

Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 19 ottobre 2010

Musiche del Salento/ Claudio Prima



L'architettura degli arrangiamenti melodici di Adria accoglie il vigore
della voce di Maria Mazzotta. Attraverso lei scopriamo suggestioni di
luoghi inconsueti, un onirico scivolare tra reale e irreale
accompagnati dai vorticosi ed incrociati linguaggi sonori articolati tra
l'organetto diatonico, il sax e violoncello, trascinati dall’incalzare
delle percussioni.




Roma, qualche mese fa sull’accogliente palco sotterraneo di una piccola libreria indipendente, gli ADRIA hanno presentato Penelope; il gruppo è stato creato nel 2005 da un progetto di Claudio Prima (organetto e voce) insieme a Redi Hasa (violoncello) e ad Emanuele Coluccia (sax tenore e soprano) completato da Maria Mazzotta (voce) e da Vito De Lorenzi (batteria e percussioni)

Penelope è un disco molto atteso contenente 11 brani che concludono otto anni di esperienza narrativa e compositiva.

Comodamente seduti su scricchiolanti sedie, l’intimo pubblico ha accettato l’invito e si è imbarcato con gli eclettici orchestrali. Nonostante il sedentario viaggio, durato il tempo di un intero concerto, gli Adria hanno raccontato, attraverso dolci ed a tratti frenetiche sonorità strutturali, storie e visioni musicali sorprendenti per la loro evoluzione immaginifica. Suoni ed atmosfere, che si alternano indistintamente tra presente e passato, generano un meticoloso equilibrio armonico ritmato dai frequenti e nervosi accenti che dilatano i confini invisibili dell’improvvisazione.

Gli architettonici arrangiamenti melodici accolgono la deliziosa e vigorosa voce di Maria Mazzotta, attraverso la quale scopriamo oniriche suggestioni di luoghi inconsueti che scivolano tra il reale e l’irreale, questi sono affiancati dai vorticosi ed incrociati linguaggi sonori articolati tra il diatonico organetto, sax e violoncello, tutti trascinati dall’incalzante tempo delle percussioni.

Questa sera alle ore 21:00 sull’elegante palco del settecentesco teatro Paisiello, l’incessante macchina ritmica del poliedrico quintetto salentino degli ADRIA è pronto a riproporre in un’anteprima tutta leccese il travolgente concerto di esordio del loro primo disco.

A qualche ora dell’evento incontriamo Claudio Prima:

Come nasce il disco Penelope?

Penelope nasce da una lunga navigazione, non potrebbe essere altrimenti. E’ un disco che ha atteso 8 anni per essere pubblicato e quindi porta con sé il dono dell’attesa, la pazienza. E la figura di Penelope a nostro modo di vedere la rappresenta elegantemente. Il cd contiene la sintesi di un lavoro di ricerca e composizione che dura infatti dal 2002, anno di nascita del progetto. Gli 11 brani del disco sono una parte dei risultati raggiunti e raccontano in musica le tappe di questo percorso.

Quali sono i cardini del progetto?

Adria è nato come progetto ponte fra le musiche del Sud Italia e dell’Albania. Io e Redi Hasa dall’inizio della nostra collaborazione abbiamo immaginato che vi fosse un filo sottile a legare le rispettive tradizioni di provenienza. Siamo partiti da qui e abbiamo provato dapprima a trovarne le assonanze, riproponendo i brani del repertorio tradizionale e riarrangiandoli col nostro gusto, quindi abbiamo iniziato a scrivere musiche e testi originali. Questi sono i cardini del progetto, la ricerca di una nuova chiave di lettura delle musiche di tradizione che possa incontrare la musica d’autore, il jazz e le nostre sensibilità inevitabilmente moderne.

A quale mercato è orientato il cd?

Penelope è un cd trasversale rispetto alle forme musicali esistenti in Italia e in Europa. Ed è proprio al circuito etnico europeo che il disco è orientato. Abbiamo già frequentato il pubblico d’oltralpe e l’accoglienza nei confronti della nostra musica è stata entusiasta, soprattutto in Germania. In Italia frequentiamo anche i festival jazz oltre che quelli world, in passato tutte le volte che ci siamo confrontati con un pubblico legato al jazz o alla musica colta abbiamo sempre riscontrato un forte interesse. La nostra musica ha strutture molto aperte ed ha un forte impatto live nel quale c’è un ampio spazio per l’improvvisazione e per il dialogo estemporaneo fra gli strumenti, costume più diffuso nel panorama jazz che in quello etnico.

Dal testo del brano “Siamo arrivati stanotte” emerge un senso di “disorientamento”. Quest’ultimo vuole affiancare la condizione dell’immigrato alla vostra, quale band alla ricerca di una identità all’interno del panorama musicale?

Più che una ricerca di identità in termini di collocazione stilistica, siamo alla perenne ricerca di un luogo dove collocarci, ci sentiamo cioè, nomadi per elezione e per scelta, sia dal punto di vista musicale che della provenienza geografica.” Siamo arrivati stanotte” parla di questo e accomuna, nello stesso testo, le sorti dei musicisti e degli zingari, approdati in un luogo che spesso dimentica il suo passato di paese d’accoglienza.

Adria può essere considerato un punto d’arrivo raggiunto grazie alle esperienze musicali dei precedenti progetti quali: Manigold, Tabulè e BandAdriatica?

Adria sicuramente si nutre delle esperienze di tutti gli altri progetti nei quali alcuni di noi partecipano, ma ne rappresenta un lato nascosto più che un punto d’arrivo, una faccia della medaglia che trova finalmente uno spazio d’espressione. E’ il nostro lato più riflessivo e intimista che viene fuori nelle composizioni di Adria, necessario e imprescindibile per poter dar voce negli altri progetti allo stile festoso e travolgente che pure ci rappresenta bene.

La musica degli Adria è il risultato di un personale percorso sperimentale oppure è derivata dall’interazione di determinati musicisti caratterizzati da esperienze e culture differenti?

Entrambi. C’è molta della mia ricerca personale sull’organetto, anzi è il progetto nel quale confluiscono maggiormente le mie sperimentazioni timbriche e compositive centrate sullo strumento. Ma c’è anche l’apporto dei musicisti straordinari che compongono il gruppo, personalità articolate e ricche, che si incontrano in questo progetto con passione e apportano contributi preziosi anche dal punto di vista creativo. La voce di Maria Mazzotta, il violoncello di Redi Hasa, il sax di Emanuele Coluccia, e le percussioni di Vito De Lorenzi identificano il progetto tanto quanto il mio organetto e ne rappresentano la forza trainante.

Esiste un filo conduttore tra le tematiche dei testi?

In tutti i testi c’è il tema dell’incontro, della distanza, del movimento. Sono le parole che riportano in voce la musica che scriviamo. Hanno imparato la lezione dei canti tradizionali, della loro poetica semplicità. E’ su questa che sono imperniati, con la convinzione che si possa riscrivere un canto tradizionale senza tradurlo, ma semplicemente riportandone il valore alle sensibilità di chi scrive e suona oggi, a cent’anni di distanza.

Cosa troviamo alle estremità del “nodo”?

Le città che conosciamo, quelle che non abbiamo ancora visitato, le nostre mani, le nostre storie, due sponde dello stesso mare. E ancora tanti altri nodi.



Giuseppe Arnesano