lunedì 30 agosto 2010

Alla Torre del Serpe

Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 27 giugno 2010

Scrive Maria Corti:“Case vicino alla torre non ce n’erano perché posto sinistro quello, dove la notte i morti tornavano dal mare alla riva, salivano sugli scogli e andavano con sottili lamenti fra le malerbe. Questa storia sulla nostra costa ebbe inizio nei tempi addietro quando in Terra d’Otranto regnava Maria d’Enghien e sulla torre viveva un serpe […]”.
Percorrendo la dorsale adriatica in direzione di Otranto, s’ammira quell’inaccessibile limes tra cielo e mare, distinguibile soltanto nelle azzurre e raffinate tonalità cromatiche della natura. Giunti a pochi chilometri a sud della mondana Hydruntum, questa domenica riscopriamo le ambigue “storie” della Torre del Serpe. Situata all’estremo lembo di quella tormentata scogliera, si erge, faticosamente un’alta sezione verticale innestata su di un basamento troncoconico, di circa sei metri di diametro, rudere arcaico di resistenti conci di pietra tagliati in maniera regolare. Di forma cilindrica, dominava e domina da sempre, il trafficato mare Adriatico, sin dalla romana epoca, quando le fu attribuita il compito di guidar verso terra, per mezzo della combustione dell’olio di oliva o di balena, gli antichi viandanti del mare dalle prosperose reti. Il faro venne restaurato con l’avvento di Federico II di Svevia, il quale, in seguito ad un potenziamento strategico lungo l’intera costiera salentina, decise di avviare una grande operazione di demolizione, di restauri e costruzioni, avvenuta dal 1220 al 1266 in cui furono edificati trentaquattro nuovi castelli e ristrutturati diciotto preesistenti.
Dove finisce la storia ha origine il mito; quando, ancestrali mostri e serpenti marini, regnanti dell’immaginario popolare tra il naturale e il sovrannaturale, risalivano dalle oscure e poco indagate profondità dei mari cibandosi del prelibato olio che alimentava la fiamma del faro. L’appetitoso unguento attirava sulla costa il serpente marino, avvolgendo tra le sue viscide spire l’alta torre fino all’estrema feritoia, dalla quale ingurgitava e gettava nell’ombra gli sventurati marinai. Numerose erano le scorribande piratesche al tempo dell’invasione turca del 1480 per depredare la ricca cittadina, ma non tutti i ripetuti attacchi andarono a buon fine, una seconda leggenda, infatti, racconta, che fortuitamente il serpente,consumando l’olio del faro,lo spense, privando i predoni dell’orientamento e costringendoli ad attraccare presso la vicina Brindisi.
Da nord a sud la “Civitas Fedelissima Hydrunti”era attorniata da altrettante torri difensive: Torre Fiumicelli, Torre Santo Stefano,Torre delle Ortelle,Torre Sant'Emiliano, Torre Palascia e Torre Badisco (queste ultime due andate distrutte nel XIXsecolo), tuttavia quella del Serpe, nonostante le mitiche leggende ed il lento declino, si è ricostruita,assurgendosi ad immortale simbolo del gonfalone cittadino: « Un campo d’azzurro, alla torre cilindrica d’argento, avvinghiata da una serpe di nero che, risalendo in senso sinistrorso i fianchi di essa torre, introduce la testa nell’alta finestra aperta nel campo[…] lo scudo fra due rami di quercia e d’alloro decussati alla base è timbrato dalla corona urbica del rango di città».

Giuseppe Arnesano

sabato 28 agosto 2010

La stella dei d'Amely nel palazzo baronale di Melendugno

Pubblica su Salogentis il 4 luglio 2010



Questa domenica ripercorriamo le strade del Salento centro-orientale in direzione di Melendugno, situato tra il capoluogo e Otranto. La leggenda narra di Malennio mitico re dei salentini e discendente di Minosse che, dopo aver fondato Syrbar, antico nome della località costiera di Roca e, l’attuale Lecce, attribuisce dal suo nome Malen-nio al piccolo centro il toponimo di Melendugno, in seguito trasformato da Malandugno (portatore di sventura) a Melendugno (portatore di dolcezza). Fonti non ufficiali riconducono l’origine del nome dallo stemma comunale, sul quale vi è raffigurato un albero di pino d’aleppo con al centro un insieme di alveari legati alla produzione di miele che in dialetto locale viene chiamato “mele”. Melendugno presenta antiche testimonianze dell’età del bronzo come i dolmen detti “Placa” e “Gurgulante”, ma il vero e proprio sviluppo urbano, sembra aver avuto origine durante l’epoca Medioevale. Anche in questo Paese si susseguirono numerose successioni feudali a partire dal 1335 fu sede dei Garzya, poi fu la volta dei Del Saba e dei De Palacis. Nel XIV secolo fu acquistato dai Paladini che si estinsero con la morte di Giorgio Antonio nel 1656. Passò ai Maresgallo e quindi nel 1680 ai D’Afflitto che regnarono per breve tempo in quanto costretti a vendere il casale ai D’Amely per saldare i debiti contratti. I D’Amely regnarono su Melendugno fino al 1806 anno della soppressione della feudalità nel Regno di Napoli. Proprio agli ultimi feudatari è attribuito il Palazzo Baronale D’Amely, chiamato anche castello fu realizzato da Gian Giacomo dell’Acaya nella seconda metà del Cinquecento, su commissione di Pompeo Paladini settimo barone di Melendugno e Lizzanello. L’edificio si configura come una torre poligonale a pianta stellare appartenente all’architettura militare di scuola toscana e marchigiana, alla quale vengono, successivamente, affiancate altri corpi di fabbrica per aumentare la disponibilità di spazi interni. La torre alta 12,50 metri con mura di 4,5 metri, presenta una base scarpata e una facciata divisa da due tori marcapiano; un tempo circondata dal fossato che attualmente è stato coperto da sovrastrutture successive, sorgeva isolata rispetto alla cerchia delle mura medievali che cingeva l’abitato, tale scelta sanciva la definitiva perdita di efficacia dell’antico sistema basato sulla cinta muraria con torri ad essa addossate in corrispondenza delle porte.
Palazzo baronale di Melendugno (Fonte: Wikipedia)
Palazzo baronale di Melendugno (Fonte: Wikipedia)
Il portale d’ingresso di stile cinquecentesco, sovrastato dallo scudo gentilizio dei d’Amely e sorretto da due putti, presenta due leoni addossati e coricati che sostengono sul dorso una torre merlata; sopra lo stemma è posta una statua della Madonna Immacolata. L’accesso era possibile attraverso un ponte levatoio, successivamente sostituito dai baroni D’Amely, con uno in muratura. Nella parte superiore dell’edificio, in direzione della verticale del ponte, sono presenti tre caditoie a scopo difensivo attraverso cui si poteva gettare qualsiasi materiale sull’eventuale assediante.Nei pressi della torre si collocavano le carceri baronali, i magazzini per i viveri, la torre con guardiola e la piccola cappella al pian terreno che conserva ancora gli affreschi del Cristo Crocifisso e di una Madonna col Bambino, un’altra testimonianza figurativa è visibile nella “Trasverberazione di S. Teresa d’Avila”, eseguita dal De Matteis. Nel suo complesso l’edificio fortilizio risulta somigliante con il Castello di Sant’Elmo di Napoli e con alcuni elementi architettonici della cittadella di Malta, in particolare il riferimento si nota nei cosiddetti torrioni a “pinza” che disponevano tra le due cortine a stella di uno spazio ideale per bersagliare il nemico.
Giuseppe Arnesano

O per Bacco!

Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 13 giugno 2010

mercoledì 18 agosto 2010

San Domenico in Nardò

Pubblicato su "Il Paese Nuovo" domenica 7 marzo 2010


Il nostro viaggio domenicale prosegue a sud-ovest delcapoluogo salentino, non lontani dalla costaionica facciamo tappa nel territorio pianeggiante di Nardò. Entriamo nella Città Neretina (Neretùm, luogo ricco di acque) percorrendo da sud la lunga arteria di via 25 luglio, ingresso ideale per accedere al centro storico.
Le mura turrite del castello,segnano il passaggio dalladominazione angioina a quellaaragonese, e furono concepite durante il XV secolo per volere del principe Giovanni Antonio Acquaviva d’Aragona, ma in seguito alle trasformazioni e rifacimenti avvenuti tra la fine delXIX e gli inizi delXX secolo, il fortilizio viene anche riconosciuto come il castello della famiglia Personè. Superato il Castello prospiciente la Piazza Cesare Battisti, ci addentriamo nei lunghi e tortuosi “vicoli barocchi” del centro storico, fortemente suggestiva è, se non fosse per gli onnipresenti segni di modernizzazione, il tratto di via Lata rimembrante scorci, colori e suoni di altri tempi. La lunga fuga prospettica della suddetta via si conclude nell’intima piazza di San Domenico, dove pesantemente s’addorme l’omonima chiesa. Agli inizi del XIV secolo risale la fondazione del convento e il titolo originario di Santa Maria de Raccomadatis, mentre, il progetto dell’attuale chiesa dei domenicani viene eseguito tra il 1580 e il 1594 ad opera dell’architetto Giovanni Maria Tarantino. Le modifiche tardo cinquecentesche comprendono il campanile fatto costruire da Monsignor Salvio e terminato nel 1572 e le sale del pianterreno del convento. Il drammatico terremoto del 1743 distrugge quasi totalmente la fabbrica dei domenicani, ad eccezione della facciata, del muro laterale sinistro e di parte della sacrestia. L'interno, ad un'unica navata con pianta a croce latina e tre cappelle per parte, viene ricostruito dopo il1743seguendo i canoni dellaControriforma. Di notevole importanza risulta la facciata, iniziata nel 1580 sotto la direzione di Giovanni Maria Tarantino coadiuvato da abili maestranze come Giovanni Tommaso Riccio, Scipione de l’Abate e Scipione Bifaro. La complessa e articolata pagina iconografica scolpita in facciata, rimanda alla presenza del teologo domenicano Ambrogio Salvio, il quale soggiornò prima a Nardò nel 1569 e successivamente nel convento di San Tommaso d’Aquino di Napoli dal 1577; ma la decorazione iconografica della facciata, viene eseguita durante il vescovato di Cesare Bovio (1577-1583) personalità bolognese legata alla teologia borromaica. Il prospetto della facciata è diviso in due ordini: quello inferiore richiama il mondo terrestre ed è popolato da figure paganeggianti, le quali si rifugiano negli intercolunni delle colonne binate e scanalate sostenute da alti basamenti, e da personaggi nudi o semivegetali che germogliano dal giallo colore del carparo e recanti sul capo una canestra di frutta reggente la ricca trabeazione. Nell’ordine superiore viene raffigurato il mondo del Sacro e della Fede, nicchie laterali ospitano santi domenicani e il grande finestrone centrale è adornato da motivi floreali. In merito al criptico linguaggio decorativo della facciata della Chiesa di San Domenico a Nardò, Manieri Elia si esprime in questi termini: «una rievocazione della folla grottesca che vive tra gli sguinci delle cattedrali».

Giuseppe Arnesano

lunedì 9 agosto 2010

A colloquio con Sandro Chia: Della figurazione

Pubblicato sul Quotidiano "Il Paese Nuovo" del 23 dicembre 2009
Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma espone Sandro Chia: “Della pittura, popolare e nobilissima arte"

Dal 16 dicembre 2009 al 28 febbraio 2010 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali presenta negli spazi della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma la mostra di Sandro Chia. “Della pittura, popolare e nobilissima” arte a cura di Achille Bonito Oliva. E’ la prima grande antologica dell’artista in Italia e la sua più importante retrospettiva dopo quella del 1992 alla Nationalgalerie di Berlino.Attraverso 61 opere, 56 dipinti e 5 sculture in bronzo, vengono ripercorse le principali tappe della quarantennale carriera di Sandro Chia: dagli esordi negli anni Settanta, al successo della Transavanguardia negli anni Ottanta, all’affermazione come punto di riferimento nel panorama artistico internazionale che dagli anni Novanta arriva fino ad oggi. All’interno dell’allestimento le opere sono organizzate attorno al tema della “figurazione”, elemento distintivo e costante dell’arte di Chia nel corso degli anni: "Figure Ansiose", "Figure Titaniche", "Figurabile" e "Figure ad Arte".Per immergersi nei quarant'anni di arte e di vita dell’artista fiorentino, occorre tornare indietro nel tempo, quando alla fine degli anni Settanta i germogli della pittura neoespressionista iniziano a dischiudersi, generando il ritorno alla pittura, il recupero della bidimensionalità, della tela e dei suoi valori fondanti: colore, tono, volume, ma soprattutto contenuto e figurazione. In quegli anni Chia è tra i primi artisti “controcorrente” nel proporre il disegno e la pittura, egli rappresenta il "non plus ultra” del gruppo della Transavanguardia, movimento artistico italiano teorizzato e sostenuto dal critico d’arte Achille Bonito Oliva e inaugurato sulle pagine di «Flash Art» nel lontano 1979. Il termine “transavanguardia” formato dal prefisso “trans” allude all’«attraversamento della nozione sperimentale dell’avanguardia» e afferma la libertà di tornare alla “tradizione” artistica, cosi come di potenziare i valori inediti dell’immagine e della figurazione, che sancisce la presenza di tratti marcati e di cromie violente seppure addolciti da una visione solare e ironica dell’esistenza. In un saggio del catalogo della mostra, scritto sotto forma di “lettera semi-aperta”, Achille Bonito Oliva si rivolge all’artista e conclude: «Comunque la vera arte non è quella che dà risposte, ma quella che produce ulteriori domande complicando così l'attesa sociale. Sul crinale di questa differenza si situa la tua opera».


1. Parlando “Della pittura, popolare e nobilissima arte”, come nasce la sua prima grande antologica in Italia?

R: L’idea della mostra nasce da un colloquio avuto con Achille Bonito Oliva e il soprintendente Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea Maria Vittoria Marini Clarelli. Abbiamo parlato della possibilità di fare una mostra senza doversi attenere alle regole della cronologia, delle antologie, della retrospettiva. Abbiamo inventato una formula nuova, prefissando delle categorie, delle famiglie di lavori definiti, in un certo modo un po’stravagante e sicuramente arbitrario, abbiamo cercato di rendere fruibili i lavori già presenti sul territorio, facendoli rientrare nell’evento come una installazione molto particolare che probabilmente non appartiene a quella definizione di antologia e ne tanto meno di retrospettiva.

2. In mostra le sue opere sono affiancate da brevi testi, frammenti della sua poetica con i quali racconta l’episodio raffigurato, crede che il fruitore contemporaneo immerso in una società vacua abbia ancora la sensibilità di comprendere il dialogo con l’opera d’arte?

R: Sicuramente grazie a questi interventi pseudo letterari, pseudo poetici e pseudo descrittivi, il fruitore dovrebbe avere la possibilità di entrare in un umore, in un senso, in un’atmosfera mentale, in un certo clima culturale di sensazioni e poi da lì partire con la sua capacità di consumare l’opera, non necessariamente di comprenderla, perché più che capire bisogna abbandonarsi alle sensazioni e alle gaie scelte piuttosto che a scelte empiriche. Speriamo che ci sia stato un cambiamento, ci sono sempre delle costanti come il bisogno e la necessità dell’uomo di assistere all’arte, ma l’arte si spiga su degli archi di tempo che non sono quelli su cui siamo abituati, ad esempio nella moda, quindi l’arte ha ancora un valore, perché ha un respiro diverso, si rivolge ad una profondità ad una costanza nell’essere e ad una condizione umana che prevarica queste cose stagionali a breve termine.

3. Quale è il destino della Pittura figurativa secondo Sandro Chia?

R: La pittura figurativa non ha futuro e non né ha mai avuto uno, ha sempre vissuto alla giornata, è sempre stata un’arte guardata come se fosse inadeguata, morta, ma è una cosa interessante perché vive su una condizione abituale come di pezzi supplementari, in altre parole, tutto quanto è scaduto, anche la storia è finita, ma viviamo i tempi supplementari, quindi ogni cosa che noi facciamo con la pittura è importante e fondamentale perché potrebbe essere l’ultimo gesto, che parafrasando il linguaggio calcistico potrebbe essere il golden goal, il goal finale e poi non c’è appello.
4. Ha nostalgia degli anni fervidi della Transavanguardia?

R: No, perché non so cosa si intenda per nostalgia, questa è un fatto erotico, molto produttivo, c’è un erotismo nella lontananza; a volte ho fatto dei viaggi, mi sono allontanato da casa in maniera crudele verso me stesso, solo per il gusto un po’ masochistico di sapere cosa significhi la nostalgia di casa, delle persone che conosci senza però riuscire a provare interamente questo sentimento, alla fine mi sono sentito a casa dove mi trovavo,è tipico degli italiani possono andare ovunque portando indietro se stessi.

5. In che modo la Transavanguardia ha influito nelle sue opere recenti?

R: Spero che le influenze e le interazioni ci siano, però non ho modo, dal punto di vista esistenziale, di fermare me stesso, di uscire da me stesso e fare queste analisi sul “come” e sul “dove”, attualmente sono ancora in una fase di lavoro; ma in realtà la storia è ancora tutta da vivere.

6. Lei è un artista poliedrico, che ha sperimentato si è espresso anche attraverso il mosaico e il video, crede che la pittura sia ancora l’unico medium in grado di trasmettere al fruitore le innumerevoli sfaccettature dell’essere umano?

R: La bellezza della pittura ha un’assoluta immanenza perché desiste contro ogni previsione e logica, il bello della pittura è proprio questo che viene eseguita nonostante tutte le previsioni negative da sempre, ma senza togliere niente all’inattività della pittura, dunque è bene che la pittura resti inattuale, altrimenti se fosse di moda sarebbe una tragedia.

7. A conclusione della LII I Biennale di Venezia, quale è il suo giudizio nei confronti del panorama dell’arte contemporanea in Italia?

R: Mi sembra come sempre molto vitale, l’Italia è un Paese che genera naturalmente artisti e l’arte fa parte del nostro codice a barre, ce l’abbiamo dentro. Ci sono tanti giovani che sono pronti a fare un lavoro eccellente, che hanno delle idee giuste, bisogna dar loro delle dritte, se li lasciamo in balia delle riviste ne viene fuori un bel niente. Probabilmente questa mostra dovrebbe avere una sua valenza per dimostrare che ci sono dei procedimenti che non sono necessariamente quelli carrieristici. Ciascuno deve fare quello che sente con tutto il cuore e con tutta l’anima e fregarsene di tutto il resto, se tutto questo viene percepito è una buona cosa.

Giuseppe Arnesano.


Biografia
Sandro Chia nasce a Firenze il 20 aprile 1946. Vive e lavora tra Miami, Roma e Montalcino (SI).Frequenta l’Istituto d’Arte e si diploma all’Accademia delle Belle Arti di Firenze nel 1969. Dopo aver viaggiato in India, Turchia ed Europa nel 1970 decide di stabilirsi a Roma. Negli anni Settanta comincia a esporre a Roma e in Europa. Agli esordi il suo lavoro è legato all’arte concettuale ma presto se ne distanzia a favore della scoperta del linguaggio pittorico attirando l’attenzione della critica italiana e internazionale. Negli anni Ottanta diventa uno dei protagonisti del gruppo della Transavanguardia. Dal Settembre 1980 ad Agosto 1981 lavora a Monchengladbach in Germania per poi trasferirsi a New York, dove vive per oltre due decenni pur tornando frequentemente in Italia a Ronciglione (VT) e, in seguito, a Montalcino (SI). E’ stato invitato a esporre alle Biennali di Parigi e San Paolo e, più volte, alla Biennale di Venezia.Nel 2003, lo Stato italiano ha acquistato tre sue opere per la collezione permanente del Senato della Repubblica a Palazzo Madama, mentre nel 2005 sono state collocate due sculture monumentali davanti alla sede della Provincia di Roma. Nella sua azienda vinicola di Castello Romitorio (Montalcino – SI) si occupa della produzione di pregiati vini tra cui il rinomato Brunello.

domenica 8 agosto 2010

L'arte tra le righe: Lo scriptorium del mondo

L'arte tra le righe: Lo scriptorium del mondo: "Pubblicato sul Quotidiano Il Paese Nuovo 1 agosto 2010 L’Abbazia di San Nicola di Casole:In questa seconda domenica del mese ripercorriamo l..."

Lo scriptorium del mondo

Pubblicato sul Quotidiano Il Paese Nuovo 1 agosto 2010

L’Abbazia di San Nicola di Casole:
In questa seconda domenica del mese ripercorriamo la litoranea adriatica per riscoprire l’antica storia di quel crogiuolo culturale, edificato mediante silenziosi blocchi di pietre che funsero da solido luogo d’incontro intellettuale fra due civiltà “forzatamente” rivali. Oriente ed Occidente si compenetrano in un’eterna dissertazione accademico-letterale persistente “architettonicamente” nei poderosi e polverosi ruderi dell’Abbazia di San Nicola di Casola. Dopo appena due chilometri a sud di Otranto, proseguiamo lungo la scogliera della Palascia fino ad allontanarci dal Canale idruntino per giungere nell’afoso entroterra campestre segnato da un lungo viale alberato che ci orienta in direzione dei resti del monumentale complesso monastico greco-latino. Costantinopoli (Istanbul): il 726 d.C. fu l’anno dell’editto iconoclasta, promulgato dall’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico per condannare alla rimozione e distruzione il culto delle immagini sacre in tutto l’oriente cristiano, costringendo i numerosi uomini di chiesa a rifugiarsi nel sud d’Italia. Le prime comunità monastiche orientali che giunsero in questo “accogliente” lembo di terra, alimentarono la devozione a San Basilio,la quale, perdurò ed accrebbe durante l’età normanna dall’XI-XII secolo, poiché questi nuovi “conquistatori” non erano intenzionati a distruggere ed umiliare l'arte e la spiritualità bizantina radicata nel Sud d’Italia, ma a condividerla e rispettarla. Dunque la storia dell’Abbazia di Casole ha inizio al tempo del normanno Boemondo I d’Altavilla, principe di Taranto e di Antiochia che tra il settembre del 1098 e l’agosto del 1099 restaura o fonda, sul sito di quell’importante insediamento di monaci basiliani, guidati dal primo egumeno Giuseppe ed assertori della regola di Basilio il Grande, il cenobio di San Nicola. Probabilmente dopo l’intervento“restaurativo”voluto da Boemondo, al monastero viene attribuito il nome “Casole” poichè in precedenza l’originario nucleo monastico era organizzato da primitivi caseggiati, come capanne, nicchie o casole ospitanti i religiosi durante la recita delle preghiere. Casole era uno dei più importanti ed attivi monasteri basiliani del meridione d'Italia e del Salento insieme a quello di Santa Maria delle Cerrate presso Lecce; il monastero Casolano era sede di uno scriptorium, importante per la produzione e riproduzione di codici e testi classici rigorosamente in greco ed in latino, scritti da illustri studiosi come Giovanni Damasceno, Gregorio di Nazianzo e Cirillo di Alessandria. La biblioteca di“Casole”era considerata una delle più fornite e preziose dell’Occidente e riusciva a munire sia l’intima cerchia dei monaci calligrafici che, operavano all’interno del monastero, e sia i monaci che richiedevano libri per la liturgia e per la lettura privata. Questa “antica fucina di conoscenza” antesignana dell’Università offriva ai giovani greci, ebrei e latini di tutte le “province del mondo antico” lo studio di numerose discipline: astronomia, musica, retorica, grammatica, teologia, filosofia, scienze naturali, alle quali si aggiunsero le fondamentali, greco, latino,trivio e quadrivio. All’interno delle pagine del “Typikon” di Casole, documento che regolava la vita religiosa ed intellettuale del monastero otrantino, abbiamo appreso che nel 1160 l’egumeno Niceta fabbricò nei pressi del sacro complesso, la prima “casa dello studente” del mondo occidentale, all’interno della quale si poteva trovare insieme al vitto, all’alloggio ed all’insegnamento, un servizio bibliotecario “aperto al pubblico”. Questa serie di “servizi gratuiti” erano a disposizione di quanti volessero apprendere lo studio delle lettere classiche. Il cuore “culturalmente” pulsante di “Casole” era alimentato costantemente dagli apporti di insigni umanisti come Giovanni Grasso, Andrea da Brindisi, Nicola d'Otranto, Giorgio Bardanes, tutti afferenti “all’entourage letterario” promosso dall’abate Nettario, personalità fine e complessa dalla profonda cultura da letterato, poeta, grammatico e teologo. Quell’ “universo umanistico” progettato in terra non ebbe vita facile e rimase ben poco a seguito della distruzione e del violento saccheggio di Otranto ad opera di Maometto II il Conquistare avvenuto nel luglio del 1480. Attualmente quell’immenso patrimonio culturale è disseminato fra le diverse biblioteche presenti in Europa.
I ruderi del complesso monastico di San Nicola di Casole attendono un concreto intervento di rivalutazione, tutela e fruizione, con l’auspicio che il seme della cultura possa nuovamente germinare in questo fertile territorio e fungere da modello esemplare per favorire un proficuo interscambio culturale.
Giuseppe Arnesano