domenica 20 febbraio 2011

Quando dici il Paradiso

Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 20 febbraio 2011


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Cinema/Intervista alla regista Paola Randi

In questi giorni è giunto nelle sale cinematografiche italiane, dopo la presentazione nella sezione Controcampo italiano alla 67° Mostra del Cinema di Venezia, il lungometraggio “Into Paradiso” opera prima della regista milanese Paola Randi; la vulcanica Paola ha raccontato, in maniera spontanea e divertita, i retroscena della sua “fiaba” vissuta con professionalità, armonia e vivacità d’insieme...
A Lecce in sala al Don Bosco d'Essai

Napoli, l’occhio dell’osservatore si disorienta e poi si smarrisce tra i chiassosi e colorati vicoli della labirintica città partenopea; su questo palcoscenico naturale, che ha come sfondo la sagoma del Vesuvio, si scoprono tanti micro -mondi uno all’interno dell’altro e,dopo aver percorso sbadatamente un umido corridoio scalcinato, s’apre di fronte a noi il “fondaco” ossia il variopinto rione dello Sri-Lanka parzialmente colonizzato da immigrati. Su di un’anonima terrazza,in pochi metri quadrati, si intrecciano le storie di: Alfonso D’Onofrio (Gianfelice Imparato) introverso scienziato napoletano neodisoccupato, dell’affascinante Gayan (Saman Anthony) squattrinato ex campione di cricket srilankese e di Vincenzo Cacace (Peppe Servillo) il corrotto politico locale dal carattere cinico ed arrivista. I tre personaggi al limite tra il reale ed il surreale, si rincorrono in un tempo cadenzato e corale arricchito da un insolito spirito comico a tratti poetico.
Conosciamo meglio l’esordiente video-maker:

Paola, Come ha vissuto la “napoletanità” durante la lavorazione del film?

Mi sono divertita molto ed il quartiere ci ha accolto benissimo; poiché nonostante fossimo in questo crocicchio di vicoli, appostati sul tetto di questo palazzo nel “fondaco” per circa due settimane,la gente ci ha letteralmente adottato; grazie alla collaborazione delle persone siamo riusciti a portare il trucco, i costumi ecc..direttamente dentro le case dei residenti. Eravamo mescolati perfettamente alle persone; un esempio buffo riguarda Gianfelice Imparato che girava tranquillamente in canottiera e con il sigaro.

Come è stato dirigere Gianfelice Imparato e Peppe Servillo?

Bhè è stato fantastico! Gianfelice Imparato è un genio; inoltre è stato un sostegno fondamentale per me, soprattutto perché è riuscito ad instaurare con tutto il cast un’armonia straordinaria; credo che il rapporto creatosi tra Imparato, Servillo ed Anthony sia evidente durante la visione del film; questa affiatata collaborazione è stata un po’una mia scommessa vinta; anche Servillo è stato meraviglioso; alla fine posso dire che sono stati tutti bravi.

Il ruolo di Saman Anthony invece?
Ginafelice e Peppe sono stati straordinari nel lanciare un “non attore” come Saman Anthony che per la prima volta nella sua vita, oltre a recitare nella sua lingua, ha dovuto recitare con due attori che dialogavano velocemente in napoletano. Anthony è stato bravo ad accordasi con queste due grandi personalità.

Come nasce l’idea di utilizzare quella “surreale scenetta” per raccontare i “sogni ad occhi aperti” di Alfonso?

L’idea nasce da esperienze differenti; dopo aver studiato Giurisprudenza ho fatto anche teatro e successivamente mi sono dedicata alla pittura per diversi anni; solitamente frequento musei o mostre d’arte contemporanea per cercare degli spunti sulle immagini, visto che è il mio modo di lavorare soprattutto per quanto riguarda la sceneggiatura. Mi sono accorta che ho bisogno di stimoli visivi per capire ciò che voglio realizzare; mi sono sempre interessata della memoria emotiva perché i “fatti” non sono particolarmente importanti, ma al contrario è importante indagare e comprendere il come “noi li viviamo” e come “noi li reinterpretiamo nel ricordo”; questo è il nostro modo di vivere a determinare le nostre scelte. Aggiungo che “il sogno ad occhi aperti” è un processo creativo libero messo in atto da tutti e questo dimostra che la creatività appartiene al patrimonio dell’umanità; credo che questo è molto importante visto che è un carattere che ci distingue nel resto dal creato; i “sogni ad occhi chiusi” sono creazioni involontarie nel processo di associazione delle immagini; mentre durante la veglia la persona sceglie e questo suggella la nostra libertà; quindi quando uno sogna ad occhi aperti si sente veramente libero; ed allora perché non poter esplorare una cosa talmente straordinaria?; in più il personaggio di Alfonso si adattava perfettamente per mostrare questi processi mnemonici.

Quali effetti ha utilizzato durante le fasi di lavorazione del film?

Ho preferito lavorare con gli effetti a ripresa.

Perché?

Nonostante ami molto gli effetti digitali, prediligo quelli a “ripresa” poiché hanno un gusto particolare, sono unici ed irripetibili e confermano quell’aspetto di irripetibilità che invece l’effetto digitale non ha perché è infinitamente riproducibile. Questo genere di effetti da un tocco artigianale, la gente si diverte a vedere e capire come è fatto un trucco; è un qualcosa di magico, secondo me affascina perché può essere riprodotto da ognuno di noi.

A proposito degli effetti a ripresa, ci spiega la tecnica dell’animazione a “passo uno”?

La tecnica a “passo uno” è un’antica tecnica di animazione fatta con l’attore; solitamente l’immagine cinematografica contiene 24 fotogrammi al secondo di pellicola; dunque ogni fotografia che scatti è un fotogramma e devi scattarne 24 per realizzare un secondo; successivamente muovi i tuoi personaggi a seconda della velocità che vuoi in ripresa. Non è molto complicato da eseguire ed alla fine l’effetto finale è molto piacevole e divertente.

Come è stato accolto il film nella comunità srilankese?

Molto bene, ti racconto che l’altra sera quando sono andata a Napoli per presentare il film, erano presenti molti “attori” della comunità che con le loro famiglie ci hanno festeggiato; loro sono stati contenti ed io tanto felice di avere lavorato con questa comunità molto piacevole. Ogni giorno la nostra società diventa sempre più multiculturale e questo è una fortuna, cosi apportiamo “sangue nuovo” migliorando le nostre difese immunitarie; d'altronde io non potrei non essere per il “mix” visto che sono milanese solo sulla carta, vivo a Roma e le origini della mia famiglia sono sparse in mezza Italia.

Secondo lei gli italiani si trovano a loro agio in una società multirazziale?

Certo alla fine noi siamo tutti immigrati; noi siamo davvero ovunque nel mondo e ci siamo integranti perfettamente con grandissimo successo. Io spero che la maggior parte degli italiani si ricordi di ciò che hanno fatto le generazioni precedenti; Il fatto che la nostra società sia multietnica è un valore importantissimo perché in questo modo il confronto culturale non può che portare a risultati fantastici. Ad esempio Milano è stata da sempre una città con una fortissima immigrazione, e non a caso è una città che produce di più, più laboriose e più ricca d’Italia. Penso che l’immigrazione porterà linfa nuova a questo Paese, e quindi l’immigrazione è il futuro.

Invece quelle sparute sacche politiche che remano contro queste idee?

Chi se ne frega della sacche politiche, sono gli italiani che decidono ed è il popolo che deve ricordarsi di fare le scelte giuste. I politici sono lì al nostro servizio e non al contrario; sono i cittadini che possono “defenestrarli” quando vogliono; basta avere le idee chiare ed avere memoria del nostro passato. Gli italiani sono un grande popolo e devono ricordalo sempre; credo che il senso di responsabilità deve essere di tutti i cittadini, quindi prendiamoci queste responsabilità.

Cosa ne pensa della Manifestazione di domenica 13 in Piazza del Popolo?

E’ stata uno “schianto”; io sono orgogliosissima in quanto donna; credo che non importino i differenti modi di interpretare le cose, il concetto e la voce sono unanimi: Basta!
Ci siamo un po’ rotti i “…” è tempo di cambiamento ed è bellissimo e sono felicissima di vedere che la piazza risponda in questo modo.

Parliamo di M A U D E, gruppo delle lavoratrici dello spettacolo, di cosa si tratta?

Sono impegnata in un gruppo delle lavoratrici dello spettacolo che si chiama “M A U D E”, presente anche su Facebook anzi invito tutti gli uomini e le donne ad iscriversi, si occupa dei diritti dei lavoratori dello spettacolo con l’idea che, tutelando il lavoro delle donne nello spettacolo e la presenza femminile nella televisione e nel cinema, si garantisce un’immagine della donna ed anche dell’ uomo un po’più rispettosa ed edificante di quella che ultimamente ci viene proposta.

Per informazioni scrivete a maude.lavoratricispettacolo@gmail.com o cercateci su Facebook a “MaudeBlog gruppo di discussione delle lavoratrici dello spettacolo"



In poche battute, da regista come ricostruirebbe l’Italia di oggi?

Mi auguro che tutti continuino a scendere in piazza; in una prospettiva futura vorrei una maggiore apertura, tolleranza, una nuova politica per il lavoro, per la cultura e per la ricerca; sarebbe un grande traguardo se questo Paese riuscisse a raggiungere i Paesi più evoluti; perché in queste realtà,durante la crisi mantengono e sostengono la ricerca e soprattutto danno spazio ai giovani.

Cosa consiglia ad un giovane “apprendista” regista?

Consiglio di buttarsi e di fare; oppure, come dice Werner Herzog: «prendete la “camera” e fate un film, non ci sono più scuse». C’è bisogno dei giovani, in più mi rivolgo alle istituzioni, occorrono più borse di studio per fare esordire le giovani promesse del cinema italiano.

Come è stata l’esperienza alla Mostra del Cinema di Venezia?

Un’esperienza fantastica, già per il fatto di essere a Venezia e poi perché nella mia sezione di concorso erano presenti nomi nanto noti, tranne noi. “risata”
Sono stata molto a mio agio perché erano presenti tutti i miei amici da Roma ad incoraggiarmi; in sala siamo stati accolti benissimo, pensa che abbiamo avuto quindici minuti di applausi.

Come vede il Cinema Italiano?

Il Cinema d’autore è stato sempre il nostro fiore all’occhiello; ci sono dei registi importantissimi sia giovani che non; ad esempio Perrone e Sorrentino. Con tutto il rispetto per il cinema commerciale o “cinepanettone” è giusto che ci siano, ma in un Paese come il nostro il cinema d’autore è molto importante ed è quello che fa la differenza nel panorama estero. Deve essere sostenuto!

Chi sono i nuovi esordienti?

Gli esordienti sono tanti e molto bravi..

Qualche nome pugliese?

I pugliesi molto bravi che ancora devono esordire e che ho conosciuto sono: Pippo Mezzapesa, Andrea Costantino e Michele Bia, questi secondo me sono tre pezzi da novanta che faranno tanta strada. Ma chissà quanti alti ce ne sono.

Cosa pensi della Regione Puglia?

La Puglia è una delle Regioni culturalmente più vivaci in Italia ed è veramente una bella terra. Ho lavorato con la compagnia “Teatro minimo” e mi ricordo di lavori in teatro con Michele Torsello e tanti altri..beh poi avete delle vecchie glorie come Edoardo Winspeare.

Quali sono i suoi Maestri?

Beh ne ho troppi “risata”; facciamo così, te ne dico uno italiano ed uno straniero. In Italia guardo la commedia di Monicelli, e tra i suoi films preferisco “La Grande Guerra”; lui abitava vicino casa mia nel rione Monti e ricordo che prima di girare sono andata a chiedere la sua “benedizione”. Mentre un Maestro d’oltreoceano è William Hal Ashby, lui ha fatto film meravigliosi come “Harold e Maude” ed “Oltre il giardino” che tra l’altro è l’ultimo film con Peter Sellers.


Giuseppe Arnesano
Giuseppe Arnesano

domenica 13 febbraio 2011

In fondo alla Storia

Pubblicato sul il Paese Nuovo il 13 febbraio 2011

Luoghi del Salento/Oria

Questa domenica varchiamo i confini territoriali ed amministrativi di quella provincia rappresentata dal delfino che stringe tra i denti la mezza luna turca, per inseguire il cervo simbolo della seconda provincia meno estesa della Regione ossia Brindisi. Lungo il collinare sentiero nell’entroterra del Salento settentrionale, non molto lontano dalla romana via Appia, si eleva circoscritta a Nord dalle Murge ed a Sud dal Mare Ionio, un’altura sulla quale svetta il centro della Città di Oria architettonicamente ritratto dal poderoso castello svevo.
Anche nel caso di Oria, le origini sulla fondazione della città si dissolvono tra le oscure profondità della storia sino ad assurgere a leggenda; si racconta che Erodoto di Alicarnasso, uno dei primi storici del mondo antico se non il primo grande storico greco, ritenuto da Cicerone il “padre della storia”, e Strabone geografo greco, abbiano commentato le sventurate vicende naufraghe di un gruppo di cretesi provenienti da Minos, i quali approdati fortunatamente sulle coste joniche nel 1200 a.C. decisero di fondare, sulla sommità di quella collina che dominava la vallata, l’arcaica Hyrìa. Nonostante il naturale corso della storia, che ha visto su questo territorio le consequenziali testimonianze di civiltà come messapi, romani, bizantini e longobardi, riportiamo all’attenzione il “cavalleresco” periodo Normanno datato intorno al IX secolo d.C.
Il territorio venne conquistato nel 1062 dalla famiglia Altavilla; mentre durante la dominazione dello Stupor mundi (Imperatore Federico II di Svevia) si deve, oltre alle numerose ristrutturazioni del vecchio borgo fortificato nell’alto medioevo, la costruzione del Castello Svevo collocato sulla zona più alta di Oria a circa 170 metri sul livello dal mare. Il castello venne realizzato su ordine dell’Imperatore tra il 1225 ed il 1233, per ampliare quella robusta cortina architettonica che caratterizzava la fortificazione dell’intero territorio pugliese; dai bozzetti vergati dallo studioso Cosimo de Giorgi (1842-1922) il quale visitò il maniero nel giugno del 1880, apprendiamo che : “il fortilizio svevo ha una forma di un triangolo isoscele, con il vertice orientato a nord e la base a sud, da cui si domina la campagna di quest’angolo di Terra d’Otranto, i vertici meridionali culminano in due alte torri di forma cilindrica (la Torre del Salto e la Torre del Cavaliere), mentre nel vertice a nord sorge un grande sorge un grande torrione quadrangolare, chiamato Torre dello Sperone. Il muro meridionale del castello è ciò che resta dell’antica cattedrale che, intorno al Mille,aveva preso, in parte,il posto degli antichi edifici messapici”. La Città è divisa in quattro rioni, la parte più alta ossia quella in cui risiede il Castello è dedicata alla potente struttura militare ed è caratterizzata iconograficamente da una torre rossa sormontata da una corona su fondo azzurro; il secondo rione richiama la colonia di Ebrei presenti sul territorio, questo si distingue per lo stemma raffigurante un candelabro a sette bracci; il terzo rione è situato sulla “lama” ossia la pianura dove sfociavano le acque del castello, nel gonfalone è visibile un albero di arancio ed un pozzo; entrambi i simboli rimandano alla volontà di San Francesco d’Assisi di lasciare delle tracce del suo cammino in terra oritana. L’ultimo rione deriva dalla presenza del Colle di San Basilio, mentre lo stemma è costituito da una croce greca con stelle agli angoli.
Il Castello, conosciuto come “Gigantesco gioiello di pietra”, si fronteggia a lunga distanza con gli altri Castelli nel Brindisino e con il più noto ed ottagonale Castel del Monte; il mastio di Oria viene completato successivamente dalle torri cilindriche di epoca angioina; nei pressi della succitata Torre del Salto si colloca l’arcaica cripta dei Santi Crisante e Daria patroni originari della città.
Come ogni buon castello che si rispetti, intorno alle poderose mura si intravede una sottile velatura nebbiosa, la quale richiama alla mente la “leggenda di Oria fuomsa”; da queste parti si narra del gesto di una fanciulla che si suicido trafiggendosi il cuore o gettandosi dalla torre del castello per sfuggire ai desideri focosi di un castellano. Un’altra versione più macabra racconta della disperazione di una madre che, dovendo sacrificare la propria figlia su suggerimento dell’oracolo per evitare che le mura del castello crollassero, imprecò contro la città : “Possa tu fumare Oria, come fuma il mio cuore esasperato”. Oltrepassando una delle tre porte che racchiudono il borgo ossia Porta Lecce, costruita intorno al 1727, facciamo ritorno verso casa.

Giuseppe Arnesano


domenica 6 febbraio 2011

L'albero della Manna

Pubblicato sul Il Paese Nuovo il 6 febbraio 2011


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I luoghi del Salento/Supersano

Cripta del Santuario
“Febbraio è un mese di languori, il cuore del mondo è greve, ignaro ancora dell'inquieto aprile e del vigoroso maggio”. Con i versi del letterato francese William Somerset Maugham inauguriamo la prima domenica del mese; dopo aver percorso la S.S. Maglie-Leuca nel cuore delle Serre, luogo dove un tempo prosperava il Bosco Belvedere a metà strada tra i due mari, approdiamo nel territorio del Comune di Supersano. Ipoteticamente il toponimo del comune deriverebbe da sanu(m) riferibile alla “genuinità” del clima visto che, su quegli atavici ed incontaminati terreni si adagiava il verdeggiante e leggendario Bosco Belvedere allo stesso tempo luogo impervio e poco vivibile.
Lentamente la storia ci restituisce indizi e tracce utili a ricomporre quell’esteso mosaico che raffigura l’evoluzione della nostra civiltà, ed è solo grazie al prezioso intervento della “Ricerca” se siamo in grado di osservare e comprendere il tale passato. I primi ritrovamenti, alcuni dei quali ancora più primordiali delle epoche prese in considerazione, sono riferibili ad una presenza umana riguardante l’Età Arcaica (VI-V secolo a.C.); in altri casi, sempre dopo i dovuti interventi dell’Università di Lecce, veniamo a conoscenza di due siti, uno riferito al Neolitico mentre il secondo è collocato in uno stanziamento Ellenistico datato tra il IV ed il III secolo a. C.
Al tempo dei bizantini in Salento, probabilmente la vita di quelle “rudimentali” civiltà fu attiva nei pressi della palude di Sombrino situata all’estremità del Bosco Belvedere; nella zona industriale di Supersano conosciuta come “Scorpo”, sono state ritrovate delle testimonianze di un insediamento umano di età alto medioevale, vale a dire delle capanne (Grubenhauser) simili ad altri esempi recuperati nell’Europa del Nord. Sul luogo del ritrovamento, ovvero nella “sabbia di Cutrofiano”, sono stati rinvenuti utensili ed oggetti vari che fanno pensare alla potenziale coltivazione e lavorazione del lino presso gli accampamenti della primordiale Supersano.
Tuttavia, il primo feudo maggiormente documentato è quello del 1195 facente parte del principato di Taranto, allorquando l’imperatore Federico I di Svevia lo concesse al primogenito Enrico VI.
Attualmente in Piazza IV Novembre risiedono, nel massiccio Castello feudale architettonicamente consono agli “stilemi” medioevali dei normanni in Salento, gli uffici del Comune di Supersano; del nucleo originario rimane il Mastio, caratterizzato dalla torre centrale inglobata nelle strutture difensive di epoca successiva. Allo stesso periodo è riferibile la “Motta di Specchia Torricella”, circolare altura artificiale caratterizzata da resti di una torre di avvistamento che si ergeva sulla sommità di essa; dalla difensiva torre di legno,si poteva scorgere gran parte del territorio circostante. Percorrendo la zona della Rimembranza di Supersano, lungo quella via definita a suo tempo “misteriosa”, giungiamo ai piedi della scala che ci conduce al settecentesco Santuario della Madonna di Coelimanna.
Il contesto nel quale si è sviluppata la presenza del Santuario, arricchito dall’affascinante cripta e dalle due decorazioni parietali di matrice bizantina la prima datata al XIII secolo e la seconda più tarda, riguarda l’attività delle comunità di monaci basiliani, particolarmente fervidi tra il IX ed il XIV secolo alle pendici della boscosa Serra.
L’origine più accreditata del nome Coelimanna riguarda la presenza dell’Albero della Manna (Fraxinus orus, pianta della famiglia delle Oleaceae, nota come Orniello od Orno) nell’agro di Supersano; probabilmente dall’albero succitato, le prime comunità monastiche riuscirono ad estrarre la Manna (sostanza chiamata zucchero di manna che sgorga dalle incisioni della corteccia) conosciuta per le sue proprietà officinali e medicinali. Prima di concludere, non possiamo non citare il mito secondo il quale, uno sconosciuto principe romano affetto da un morbo inguaribile, venne miracolato dalla presenza della Vergine svelatasi con il titulus di Coelimanna; cosi il “miracolato”  innalzò in quel luogo un monumento perenne. Altre leggende narrano che, proprio sul bivio Supersano-Casarano, durante il trotto, il cavallo del “miracolato principe romano”, decise di fermarsi e prostrarsi sulle zampe anteriori come segno di devozione e ringraziamento.


Giuseppe Arnesano

martedì 1 febbraio 2011

Nella terra delle Vore

Pubblicato sul il Paese Nuovo il 30 gennaio 2011


I luoghi del Salento/Barbarno del Capo

Anche questa domenica ci ritroviamo ad inseguire la storia, la cultura e la tradizione lungo le strade del “Salento meridionale” a pochi chilometri dalla fine della terra ferma. Barbarano del Capo, frazione di circa 952 abitanti, rientra nei confini amministrativi del Comune di Morciano di Leuca.
Questo piccolo centro è adagiato nella vallata di Serra Falitte e Serra Montesardo in vicinanza delle due profonde bocche carsiche conosciute localmente come Vora Grande e Vora Piccola.
Le origini del paese risalgono alla distruzione dell’antica città messapica di Veretum, avvenuta durante le feroci scorribande saracene del IX secolo d.C.; probabilmente il nome della frazione deriva dall’aggettivo “barbari” poiché, gli scampati abitanti dell’attuale comune di Patù (Veretum), rifugiatisi nel collinare entroterra e protetti da una fitta vegetazione, mantennero vivo il ricordo di quella sventurata distruzione nel toponimo di Barbarano.
Il forte vento, che s’insinua e velatamente riempie quei vuoti architettonici caratterizzati dalla copertura di una volta a crociera, sembra sussurrare la storia del bucolico e monumentale situm del Santuario di Santa Maria di Leuca del Belvedere, meglio noto come Leuca Piccola. Poco distante dal centro storico del paese, dominato dal cinquecentesco Castello e dall’alta e quadrata Torre dei Capece (ultimi feudatari del luogo), ammiriamo su Via dei pellegrini,ossia su quel mistico sentiero che conduceva e conduce al più conosciuto Santuario di Santa Maria di Finibus Terrae, il “sacro complesso del Belvedere”.  Il piazzale, dove sorge la Chiesa e le antistanti strutture che servivano per il ricovero dei pellegrini e degli animali, è intitolato a San Lazzaro; la solidale struttura architettonica,invece, venne edificata per volere di Don Annibale Capece nel corso del XVII secolo per venire incontro a quei “viandanti dalla conchiglia sul petto” che sostavano,pregavano e riposavano prima di riprendere,alle prime luci dell’alba, il liberatorio “cammino della perdonanza” tra le braccia della “Signora” di Leuca.
Il titulus della Chiesa deriva dal fatto che dalla sua terrazza, accessibile da una scaletta, si scorge il “belvedere” ed in particolare si delinea, lungo l’infinita linea d’orizzonte l’ultimo faro di Leuca; la Chiesa del Belvedere ad aula unica, preceduta da un pronao (nel tempio greco, spazio fra il colonnato e la parte antistante della cella templare) con tre arcate addossato alla facciata principale, presenta linee architettoniche rinascimentali; attorno alla sacra costruzione invece, si alzano i resti delle mangiatoie dei cavalli, del frantoio del vino e delle altre strutture di accoglienza, tutte scavate nella roccia come ipogei,pozzi e nicchie votive.
Sul fianco della chiesetta un grande arco a sesto acuto si affaccia sul terreno dove anticamente si svolgevano le fiere, qui possiamo notare i ruderi di una locanda dove era collocata una lastra sulla quale furono effigiate le 10 P significanti: “parole poco pensate portano pena perciò prima pensare poi parlare” , ossia rudimentali ma acuti spunti di saggezza popolare.


Giuseppe Arnesano