domenica 15 settembre 2013

Ritratti d'Artista/ l'esperienza pittorica di Massimo Pasca


A qualche settimana dalla conclusione della mostra “Apocalypse moi”, curata da Francesco Aprile ed Alessandra Loalè negli ampi spazi della galleria Imperial Town a Casarano (Lecce), Massimo Pasca è pronto per l’ennesima esposizione che lo vedrà protagonista a Pisa, città adottiva durante il periodo di formazione. Le opere di Massimo Pasca sono gesti artistici spontanei, dove sia nel piccolo o nel grande formato si percepisce un corale ritmo figurativo ed un caotico senso del sonoro. Tutti i suoi personaggi hanno un qualcosa da comunicare, in un qualsiasi modo o linguaggio possibile; segni, gesti ed episodi singolari si caratterizzano in maniera analitica per le numerose sfaccettature della poetica espressiva di Pasca. Un’idea pittorica immaginifica, nella quale l’elaborato gusto “pop” dell’artista, s’armonizza brillantemente tra realtà e fantasia, immaginario collettivo e denuncia socio-culturale. Quella di Pasca è un’esperienza iconico/narrativa invitante e stimolante che come racconta l’artista: “appena t’ho fatto annusare il mio lavoro devo subito darti il secondo livello, farti vedere la pentola con il sugo, da cui arriva il profumo,  se tu lo sai assaggiare  ed apprezzare sei arrivato al terzo livello poi, come nei video games,  c’è il mostro e tocca a te”. Una breve chiacchierata per conoscere meglio le sue opere, la mentalità dell’artista ed il rapporto con la cultura artistica salentina.

Terminata Apocalisypse Moi, qual è stato il “significante” dell’esposizione?
Diciamo che è strettamente correlato al significato! Un bel Boom!che è anche molto fumettoso.

Qual è l’origine figurativa nelle tue narrazioni?
I quadri e  le illustrazioni sono principalmente di due tipi, quelli che nascono da un’immagine fulminante che mi passa per la testa e intorno alla quale ruotano una serie di elementi catartici, e quelli dove l’origine viene  annullata, dimenticata perché è frutto di un processo catartico e sognante, che accade soprattutto nei live painting, dove giro e rigiro il quadro mi perdo e mi ritrovo anche grazie alla musica. Nel primo caso le immagini devono  essere subito riconoscibili soprattutto nella loro figura principale, devono “Popurlare”nelle orecchie di chi “ascolta”.
Evito che il disegno sia accademico, “corretto” e preferisco mettere a frutto il lavoro che ho fatto per diversi anni soprattutto intorno alla fine degli anni novanta quando ho praticato i territori dell’informale, anche nei live painting,  e che oggi cerco di fare attraverso lo studio del segno. Raramente faccio una bozza e praticamente mai, uso la matita.

Con quali occhi hai visto per la prima volta “Tuttomondo” ?
Arrivai a Pisa nel 1994 e la prima volta che vidi Tuttomondo conoscevo già Keith Haring, frequentando già  un contesto fatto di musica posse, rap, reggae e writing anche se fra molti dei miei amici non era considerato un vero e proprio writer  perché dipingeva a pennello. In seguito scrissi un articolo su questo lavoro per una fanzine universitaria a cui feci seguire un articolo sul muralismo messicano. Mi appassionai molto alla figura del pittore americano  tanto che chiesi al mio professore di Storia dell’ Arte Contemporanea di poter fare una tesi su di lui, ma mi venne risposto che non era sufficientemente storicizzato. Nella piazzetta Sant’Antonio, di fronte al murales che oggi ha ottenuto il vincolo della Soprintendenza ed è stato dichiarato di “interesse storico-artistico particolarmente importante”, c’era una stazione degli autobus e spesso mi capitava di perdermi in questo binomio grigiosmog , da un lato con i bus che partivano, e il  colore degli omini di Keith dall’altro.
Tre anni fa gli ho dedicato un dipinto di grandi dimensioni dove lui (che aveva definito nei suoi scritti  Pisa un paradiso) e Dante (famosa la sua invettiva contro Pisa) improvvisavano un braccio di ferro. Poi ho avuto il piacere  di essere intervistato dal giornalista  Carlo Venturini e comparire nel libro Haring a Pisa edito da ETS, un bel modo di rifarmi della tesi mancata. Fortunatamente ho,  per cosi’dire ripiegato, su Pier Paolo Pasolini.

In che modo il valore semantico del disegno abbraccia quello cromatico?
E’ un modo molto naturale, mi riesce senza tanti calcoli,  uso i colori e il segno lasciandomi trasportare, faccio un colore e poi lo modifico e lo uso con una certa rotondità, così come cerco di fare nei disegni. Per seguire un’idea che passa velocemente cerco di essere morbido, un colore “sbagliato” può rovinare la rotondità di quel flusso. Quando disegno i quadri monocromatici scelgo il colore di fondo con la stessa logica, decido senza rifletterci troppo.

Miao
In un’epoca in cui nella maggior parte dei casi il significato dell’immagine è stato brutalmente contaminato, nelle tue opere stringi un legame iconografico diretto ed a volte celato con i grandi maestri dell’arte, quali sono le connessioni tra il tuo linguaggio contemporaneo ed i brani figurativi che hai citato?
Un artista è tale credo, perché si serve di tutto ciò che gli sta intorno per creare visioni personali.
Io rubo, rubo dalla gente, dalla strada, da internet, dai maestri del passato, dai miei stessi sogni, dal mio stesso passato. Ma non sono e non mi sento un Flâneur nel senso baudelairiano del termine. Non vado in giro con il taccuino d’artista, quelle sono stronzate. Distruggo i miei miti e le immagini più famose le rielaboro in testa, con una ironia spesso amara, so bene cosa attira l’attenzione della gente, e il primo passo  deve sempre essere attirare l’attenzione. Se senti un profumo per strada alzi la testa e cerchi di capire da dove viene, se non trovi nulla continui a camminare.
Ecco, appena t’ho fatto annusare il mio lavoro devo subito darti il secondo livello, farti vedere la pentola con il sugo, da cui arriva il profumo,  se tu lo sai assaggiare  ed apprezzare sei arrivato al terzo livello poi, come nei video games,  c’è il mostro e tocca a te. Se capisci fino in fondo il mio discorso sono contento,  altrimenti hai sempre il primo livello sul quale giocare o immaginare, o da vivere un attimo e dimenticare. Ho molto rispetto del mio pubblico. Molti artisti viaggiano sempre da soli, io chiedo alla gente se interessa salire sul mio treno psichedelico, ironico, visionario. Questo per me è essere contemporanei. La mia Gioconda ti taglia il pene, Dante si spara in bocca pur non essendo un imprenditore (altrimenti  finisce che in Italia ci sia ammazza solo per i soldi), Platone e Aristotele della Scuola di Atene di Raffaello diventano Zeman e Andrea Pazienza, presto toccherà a Biancaneve ed a Andy Wharol. Puoi rielaborare le immagini più famose ma poi ci devi mettere del tuo ed è molto difficile, ad esempio, fare scordare la Gioconda e farla diventare qualcos’altro.

In che modo percepisci la musica durante i “live painting”?
Quando faccio i live painting la musica è come un cerchio, un percorso sul quale mi sento al sicuro, come un puntino che corre su una pista di atletica. Da una parte c’è un sound system montato o un gruppo che suona, e dall’altra il pubblico che ti guarda alla spalle, ho fatto centinaia di live painting e non mi sono mai sentito in imbarazzo o sotto pressione. Per me è come avere una struttura sicura  con la quale lottare senza bisogno di vincere. Non ci sono traguardi. In questo dialogo se così si può chiamare non c’è nulla di oggettivo.

sudestnew
Le recenti evoluzioni dell’arte digitale hanno cambiato il modo di concepire l’immagine figurativa ed il lavoro dell’artista?
Sicuramente.  Ma è più facile accorgersi, almeno per me, dove la tecnologia è al servizio della propria o altrui creatività e dove è semplicemente fine a se stessa. Il campo della video art mi sembra il più colpito. La perdita dell’aura dell’opera d’arte di cui parla Benjamin, azzardo che sia ancora intatta,  anche se diversa.
Se ad esempio guardi un mio quadro dal vivo o vedi la foto dello stesso pubblicata su facebook dovrebbe esserci un abisso, a livello di sensazione trasmessa.
Invece l’aura su Facebook, secondo me potrebbe essere recuperata nello spazio temporale del  fattore sorpresa di quando viene postata la foto di un quadro. Ma questi sono discorsi che dovrebbero fare i critici d’arte io mi limito solo alle mie sensazioni. Poi loro me le rubano (ride).

Da Pisa a Lecce, qual è lo stato della cultura artistica nel capoluogo salentino?

La situazione non è affatto malvagia. Avendo girato praticamente tutta l’Italia in lungo e in largo ed essendo stato in un posto bellissimo come la Toscana, posso dire che nel Salento rispetto a venti anni fa quando sono andato via per studiare le cose sono migliorate tantissimo. E al sud pochi posti sono cosi avanti. Il miglioramento  c’è stato soprattutto a livello di presa di coscienza delle proprie potenzialità. Il mondo che mi sembra più attivo è quello dei video e del cinema, dove ho visto davvero ottime cose. E gli standard sono abbastanza alti. A livello artistico  ci sono realtà collettive davvero interessanti che si muovono con un’ottica europea, fatta di collaborazioni dove gli artisti non sono semplicemente creatori ma diventano anche promotori di eventi e collaborazioni, dove c’è scambio reale e soprattutto non ci sono invidie inutili, cosa che purtroppo a Pisa riscontravo spesso.  Il lato negativo è che molti si sono accorti che questa strana creatura chiamata cultura è qualcosa che funziona ed è anche uno specchietto per le allodole,  spesso mi sono trovato davanti a situazioni dove poi in realtà c’è solo una scenografia montata, quella si, ad arte, dietro la quale ci sono solo piccoli e grandi interessi economici o personali. Ma credo che questo accada in ogni provincia. Io magari sono troppo severo perché per me l’arte è la prima cosa e le dedico ¾ del mio tempo, ma credo che molti abbiano dedicato più tempo a guardare film e leggere biografie di artisti che a sperimentare. A livello di investimenti  in cultura qualcuno e qualcosa di buono c’è , ma bisogna che alcuni prendano coscienza del fatto che se non ci fossero gli artisti il loro lavoro non esisterebbe , mentre gli artisti esisterebbero comunque, anche se meno visibili. Da parte loro gli artisti dovrebbero ascoltarsi di più e smetterla di piangersi addosso. Quelli che sopporto di meno sono gli ultimi, quelli che pensano di non esistere se gli altri non li fanno esistere. Magari non esistere davvero!!! Come diceva bene Carmelo.

sabato 14 settembre 2013

Il segno come proiezione mentale

Recensione pubblicata su www.artribune.com

Lo spazio abitato
dimensioni ambiente
polimaterico 2010
Estese e figurativamente silenziose sono le opere di Giangaetano Patanè in mostra fino al prossimo 18 settembre, nelle sale espositive del Chiostro del Bramante. La personale dell’artista romano, intitolata “Self- Made Man” e curata da Elena del Drago, raccoglie oltre venti tele, una cospicua selezione di disegni ed alcune sculture nelle quali la terracotta assume un’importanza rilevante. Un percorso espressivo e decisamente materico quello che Patanè elabora attraverso una plurale ed articolata commistione di elementi, dove le grandi superfici pittoriche si lasciano ammirare e reinterpretare da intime riflessioni, dalle quali emerge la forza di un legame comunicativo indiretto tra l’artista, l’opera ed il fruitore. Negli spazi immaginifici, dalle tenui ed a tratti contrastanti tinte cromatiche, il segno di Patanè diviene immagine personale di una proiezione mentale dell’essere umano, emblematiche in questo caso le opere intitolate Corteccia Celebrale,Tra ali e terra e Parole al vento. Scenari, donne, enormi cetacei ed altri animali affollano le sale successive della mostra, arricchendo così l’universo simbolico del pittore che, in alcune tele come il Mostro è sottoterra, Orribili alberelli ed Il giardino di Dio,  ripropone un piccolo bozzetto narrativo o paesaggistico nel quale raffigura la versione reale di un dettaglio o del soggetto della tela; un espediente fondamentale che ci riporta fisicamente e mentalmente nella nostra dimensione.
Nelle opere polimateriche o nelle teste di terracotta dipinta, la poetica intimistica dell’artista abbandona i confini bidimensionali della tela, confrontandosi in maniera aperta e talvolta macabra con il gusto e le sensazioni dello spettatore (Lo spazio abitato, Self- made woman e Folle volo). Una serie di piccoli disegni su carta con inchiostro, grafite ed acquerelli ritrae solitari ed erotici corpi femminili, paesaggi invernali e segni antropomorfi. Una delle prime opere presenti in mostra è intitolata Freschezza 1, un olio su tela del 1994, dove in un corposo mare aperto, un uomo nuota verso l’indefinito pittorico, e prefigura un allontanamento dell’autore dalle passate concezioni figurative fino allo smarrimento corporeo, per ritrovarsi sentimentalmente nelle soluzioni concettuali che hanno caratterizzato l’esposizione romana.

Giuseppe Arnesano

domenica 1 settembre 2013

Il punteruolo rosso

Profondi ed a volte oscuri, come quelli dell’animo umano, sono le tinte cromatiche che ricoprono completamente la tela. La precisione anatomica del disegno e le decise tonalità coloristiche creano sulla superficie un vuoto interiore e pittorico dal quale emerge, attraverso un uso calibrato della prospettiva dall’alto, un realistico ed ombreggiato volto femminile, nel piatto invece ricolmo di piccole larve spicca il micidiale coleottero rosso. Così come nella realtà il punteruolo aggredisce i lembi più giovani della pianta, nel simbolismo pittorico dell’opera,  l’insetto attacca dall’interno la giovane  protagonista.

Adriana De Santis, Il punteruolo rosso, olio su tela, 80x100
La tela è stata esposta nella collettiva "L'amor folle" curata da Marco Morelli nell'ambito della quarta edizione del Festival Note al Chiaro di Luna svoltosi a Trepuzzi dal 23 al 31 Agosto 2013