martedì 27 luglio 2010

L'uomo nero


Pubblicato sul Quotidiano

Il Paese Nuovo 11 Dicembre 2009


L’UOMO NERO:

intervista a Sergio Rubini


Il frastuono del traffico capitolino disorienta e confonde; sono passati un paio di mesi, ma in qualche sala cinematografica di nicchia si proietta ancora L’uomo nero il nuovo film di Sergio Rubini, e l’unico modo per sfuggire al caos cacofonico è salire sul treno della memoria descritto emotivamente dall’eclettico regista pugliese. Il viaggio di Gabriele Rossetti (Fabrizio Giufini) non è solo un viaggio fisico, che il protagonista compie in direzione di un piccolo paese pugliese per l’estremo saluto al padre morente, Ernesto (Sergio Rubini), ma soprattutto un viaggio nel ricordo, un ritorno all’infanzia, e al tempo di quando era bambino negli anni Sessanta. Il piccolo Gabriele Rossetti, interpretato dal giovanissimo esordiente Guido Giaquinto, osserva la sua famiglia con una fervida immaginazione, dove la figura paterna di Ernesto, capostazione della ferrovia locale, risulta fragile nei confronti del figlio perché non riesce a raggiungere nell’arte i risultati ambiti, dimenticando le dovute attenzioni. Le frustrazioni di Ernesto si tramutano in continue tensioni nei confronti della moglie Franca (Valeria Golino), madre e insegnante ma soprattutto donna forte e fragile, aggressiva e condiscendente, con lo sguardo sempre vigile segue ogni minimo gesto movimento del marito, del figlio, del fratello. Il piccolo Gabriele cerca di colmare l’alienazione del padre, affezionandosi sempre più alla figura dello zio materno, Pinuccio (Riccardo Scamarcio), scanzonato giovane viveur di provincia.

Il film è un’opera corale e poetica che si caratterizza per un forte senso di amarcord, e una spicca narrazione fantasiosa e tratti commovente e riflessiva. Le dinamiche razionali della pellicola, sono affiancate da scene di surreale e scoppiettante comicità, accompagnate dalle brillanti musiche di Nicola Piovani. Nelle ultime battute la “favola retrò” si tinge di giallo, rivelando un finale insolito e dall’effetto introspettivo.

INTERVISTA AL REGISTA SERGIO RUBINI:


1. Nonostante le profonde differenze sociali tra gli anni 60 e oggi, crede che sia più complicato il rapporto attuale tra genitori e figli o quello vissuto negli anni della sua infanzia?


R: “Oggi il ruolo dei genitori è più complicato, perché i genitori del passato erano più autorevoli agli occhi dei propri figli, e avevano un continuo conflitto sia perché li vedevano vecchi, e sia perche vedevano nei genitori di quel tempo, dei portatori di un mondo antico che andava debellato. La situazione attuale è differente perché i genitori di oggi sono nella contemporaneità, e sono garanti di un futuro che fa paura, mentre i genitori del passato erano garanti di un futuro che era una promessa, questo li rendeva autorevoli perché quel futuro era salvifico ed era stato pensato da loro. I genitori di oggi sono quelli che hanno preparato un futuro in cui i figli guadagneranno di meno dei propri padri, quindi i genitori di oggi non hanno nessuna autorevolezza agli occhi dei propri figli, e questo, è in qualche modo, va contro natura, causando del male ai figli e ai genitori”.


2. Il film ha una visione della vita che oscilla tra il “surrealismo” e “neorealismo”, crede che continuerà a fondere egregiamente, queste componenti in maniera poetica e bilanciata o prenderà la strada del thriller come nel film Colpo d’occhio?


R: “Anche nell’Uomo Nero c’è una piccola detection che da risaldo mistero, a me piace il cinema di genere, ma delle volte preferisco un cinema che parta da me, e che possa dare degli spunti autobiografici. Mi auguro di poter continuare a fare film personali e di poter mescolare i generi senza dover necessariamente riferirmi ad un genere preciso”.


3. Quanto sono felliniani i suoi personaggi?


R: “I miei personaggi non sono felliniani, loro appartengono alla mia memoria. Chi è nato nel mezzogiorno, sa che quella gente ha vissuto e vive ancora al Sud, per cui non c’è nulla di felliniano nei miei film, se non il fatto di essere stato un attore che ha lavorato con Fellini, e di aver imparato la lezione dell’umiltà, e di quanto il cinema sia un’avventura esistenziale.

Nei miei film non ci sono spunti presi da altri film. E’talmente faticoso fare un film, che nel momento in cui il regista ha la possibilità di farlo è bene sfruttare quella opportunità tutta per se.

4. Si riconosce nella frase di Gabriele: “Io non voglio essere come mio padre”?


R: Credo che ogni figlio abbia pensato ad un certo punto della sua vita di volersi smarcare dal proprio padre. Mi riconosco in quella frase, ma mi riconosco anche in Gabriele adulto che si riconcilia con il proprio padre, e che scopre che dietro suo padre c’è una persona speciale con tante contraddizioni e debolezze, ma semplicemente una persona. Tante volte i figli fanno fatica ad accettare che dietro i propri genitori si nascondano persone, ma nel momento in cui poi le scoprono accettano e comprendono tutto ciò che in passato gli era sembrato oscuro.


5. In che modo si è evoluta la “sua descrizione” del territorio pugliese attraverso L’anima gemella, La Terra e L’uomo nero?


R: L’evoluzione descrittiva è variegata, perché l’Anima gemella è un film che ha una visionarietà arcaica, per cui ho scelto il salento più radicato perché in quei luoghi si avverte la forza del mediterraneo e della grecità popolata da giganti ed eroi. L’arcaicità dell’anima gemella era dettata dalla presenza continua delle scogliere e del mare. Il film era anche intriso di una sorta di magia arcaica che quel salento rispecchiava a pino.

Per la Terra mi serviva una Puglia più assolta e western, con spazi grandi, una Puglia da contro-ora, più oscura, misteriosa e complessa.Per quanto riguarda L’uomo nero, mi serviva una Puglia pensata da un bimbo, quindi spazi enormi e senza confusione, poiché i bimbi non amano la confusione e in essa ritrovano “l’uomo nero”. La confusione è tutto ciò che non si comprende il mistero, il buio, ciò che non ha volto; a me serviva una dimensione più fanciullesca per cui ho scelto una Puglia in cui le geometrie fossero in ordine e armoniche.

6. Alcuni dei suoi film sono stati girati in note locations salentine, come mai predilige l’uso dialetto barese nel profondo sud?


R: Perche io non credo in un cinema che ricostruisca la realtà, e non credo in un cinema di tipo regionalistico che parta da spunti etnici o antropologici. Il cinema ha una grande opportunità, quella di sdebitare la realtà e che attraverso la metafora si possa raccontare meglio la realtà addirittura di quanto si possa fare fotografandola per quella che è; poi mi piace ricostruire un Sud come un mondo in cui tutti possano ritrovarsi; non credo in un cinema che costruisca spettacoli, credo in un cinema più proteso a buttar giù recinti, e che la gente possa riconoscersi per ciò che ha in comune, e non che debba essere riconosciuta per ciò che la contraddistingue dagli altri.

Giuseppe Arnesano

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