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Pubblicato sul Quotidiano
Il Paese Nuovo 11 Dicembre 2009
L’UOMO NERO:
intervista a Sergio Rubini
Il frastuono del traffico capitolino disorienta e confonde; sono passati un paio di mesi, ma in qualche sala cinematografica di nicchia si proietta ancora L’uomo nero il nuovo film di Sergio Rubini, e l’unico modo per sfuggire al caos cacofonico è salire sul treno della memoria descritto emotivamente dall’eclettico regista pugliese. Il viaggio di Gabriele Rossetti (Fabrizio Giufini) non è solo un viaggio fisico, che il protagonista compie in direzione di un piccolo paese pugliese per l’estremo saluto al padre morente, Ernesto (Sergio Rubini), ma soprattutto un viaggio nel ricordo, un ritorno all’infanzia, e al tempo di quando era bambino negli anni Sessanta. Il piccolo Gabriele Rossetti, interpretato dal giovanissimo esordiente Guido Giaquinto, osserva la sua famiglia con una fervida immaginazione, dove la figura paterna di Ernesto, capostazione della ferrovia locale, risulta fragile nei confronti del figlio perché non riesce a raggiungere nell’arte i risultati ambiti, dimenticando le dovute attenzioni. Le frustrazioni di Ernesto si tramutano in continue tensioni nei confronti della moglie Franca (Valeria Golino), madre e insegnante ma soprattutto donna forte e fragile, aggressiva e condiscendente, con lo sguardo sempre vigile segue ogni minimo gesto movimento del marito, del figlio, del fratello. Il piccolo Gabriele cerca di colmare l’alienazione del padre, affezionandosi sempre più alla figura dello zio materno, Pinuccio (Riccardo Scamarcio), scanzonato giovane viveur di provincia.
Il film è un’opera corale e poetica che si caratterizza per un forte senso di amarcord, e una spicca narrazione fantasiosa e tratti commovente e riflessiva. Le dinamiche razionali della pellicola, sono affiancate da scene di surreale e scoppiettante comicità, accompagnate dalle brillanti musiche di Nicola Piovani. Nelle ultime battute la “favola retrò” si tinge di giallo, rivelando un finale insolito e dall’effetto introspettivo.
INTERVISTA AL REGISTA SERGIO RUBINI:
1. Nonostante le profonde differenze sociali tra gli anni 60 e oggi, crede che sia più complicato il rapporto attuale tra genitori e figli o quello vissuto negli anni della sua infanzia?
R: “Oggi il ruolo dei genitori è più complicato, perché i genitori del passato erano più autorevoli agli occhi dei propri figli, e avevano un continuo conflitto sia perché li vedevano vecchi, e sia perche vedevano nei genitori di quel tempo, dei portatori di un mondo antico che andava debellato. La situazione attuale è differente perché i genitori di oggi sono nella contemporaneità, e sono garanti di un futuro che fa paura, mentre i genitori del passato erano garanti di un futuro che era una promessa, questo li rendeva autorevoli perché quel futuro era salvifico ed era stato pensato da loro. I genitori di oggi sono quelli che hanno preparato un futuro in cui i figli guadagneranno di meno dei propri padri, quindi i genitori di oggi non hanno nessuna autorevolezza agli occhi dei propri figli, e questo, è in qualche modo, va contro natura, causando del male ai figli e ai genitori”.
2. Il film ha una visione della vita che oscilla tra il “surrealismo” e “neorealismo”, crede che continuerà a fondere egregiamente, queste componenti in maniera poetica e bilanciata o prenderà la strada del thriller come nel film Colpo d’occhio?
R: “Anche nell’Uomo Nero c’è una piccola detection che da risaldo mistero, a me piace il cinema di genere, ma delle volte preferisco un cinema che parta da me, e che possa dare degli spunti autobiografici. Mi auguro di poter continuare a fare film personali e di poter mescolare i generi senza dover necessariamente riferirmi ad un genere preciso”.
3. Quanto sono felliniani i suoi personaggi?
R: “I miei personaggi non sono felliniani, loro appartengono alla mia memoria. Chi è nato nel mezzogiorno, sa che quella gente ha vissuto e vive ancora al Sud, per cui non c’è nulla di felliniano nei miei film, se non il fatto di essere stato un attore che ha lavorato con Fellini, e di aver imparato la lezione dell’umiltà, e di quanto il cinema sia un’avventura esistenziale.
Nei miei film non ci sono spunti presi da altri film. E’talmente faticoso fare un film, che nel momento in cui il regista ha la possibilità di farlo è bene sfruttare quella opportunità tutta per se.
4. Si riconosce nella frase di Gabriele: “Io non voglio essere come mio padre”?
R: Credo che ogni figlio abbia pensato ad un certo punto della sua vita di volersi smarcare dal proprio padre. Mi riconosco in quella frase, ma mi riconosco anche in Gabriele adulto che si riconcilia con il proprio padre, e che scopre che dietro suo padre c’è una persona speciale con tante contraddizioni e debolezze, ma semplicemente una persona. Tante volte i figli fanno fatica ad accettare che dietro i propri genitori si nascondano persone, ma nel momento in cui poi le scoprono accettano e comprendono tutto ciò che in passato gli era sembrato oscuro.
5. In che modo si è evoluta la “sua descrizione” del territorio pugliese attraverso L’anima gemella, La Terra e L’uomo nero?
R: L’evoluzione descrittiva è variegata, perché l’Anima gemella è un film che ha una visionarietà arcaica, per cui ho scelto il salento più radicato perché in quei luoghi si avverte la forza del mediterraneo e della grecità popolata da giganti ed eroi. L’arcaicità dell’anima gemella era dettata dalla presenza continua delle scogliere e del mare. Il film era anche intriso di una sorta di magia arcaica che quel salento rispecchiava a pino.
Per la Terra mi serviva una Puglia più assolta e western, con spazi grandi, una Puglia da contro-ora, più oscura, misteriosa e complessa.Per quanto riguarda L’uomo nero, mi serviva una Puglia pensata da un bimbo, quindi spazi enormi e senza confusione, poiché i bimbi non amano la confusione e in essa ritrovano “l’uomo nero”. La confusione è tutto ciò che non si comprende il mistero, il buio, ciò che non ha volto; a me serviva una dimensione più fanciullesca per cui ho scelto una Puglia in cui le geometrie fossero in ordine e armoniche.
6. Alcuni dei suoi film sono stati girati in note locations salentine, come mai predilige l’uso dialetto barese nel profondo sud?
R: Perche io non credo in un cinema che ricostruisca la realtà, e non credo in un cinema di tipo regionalistico che parta da spunti etnici o antropologici. Il cinema ha una grande opportunità, quella di sdebitare la realtà e che attraverso la metafora si possa raccontare meglio la realtà addirittura di quanto si possa fare fotografandola per quella che è; poi mi piace ricostruire un Sud come un mondo in cui tutti possano ritrovarsi; non credo in un cinema che costruisca spettacoli, credo in un cinema più proteso a buttar giù recinti, e che la gente possa riconoscersi per ciò che ha in comune, e non che debba essere riconosciuta per ciò che la contraddistingue dagli altri.
Lecce: “Omaggio a Priore” un viaggio nei Mondi di Luigi Priore
Inaugurata lo scorso 28 Aprile e fino al prossimo 7 Maggio 2010, le sale dell’antico seminario di piazza Duomo a Lecce ospitano la mostra antologica del maestro piemontese Luigi Priore dal titolo “Omaggio a Priore”. L’evento è organizzato dall’associazione culturale Le Ali di Pandora con il patrocinio della Provincia di Lecce e del Comune di Lecce e dalla galleria d’arte contemporanea Il Grifone. L’esposizione curata da Ambra Biscuso “ripercorre quarant’anni di attività artistica del Maestro, vissuti nel pieno periodo della Dolce Vita romana e approdati fino ai nostri giorni attraverso quelle che furono e che sono le problematiche sociali e animistiche”. Piemontese di nascita ha vissuto molti anni a Roma e qui ha inizio la sua formazione artistica accanto a grandi nomi che già tra gli anni ’50 e ’60, periodo fiorente per l’arte contemporanea italiana, avevano trovato nella Capitale l’humus adatto al loro genio artistico. All’inizio degli anni ’70 è un artista conosciuto invitato nei salotti romani e le sue mostre, organizzate spesso in luoghi alternativi, rappresentano un momento di vivace confronto con il mondo culturale dell’epoca. In quegli anni l’attenzione di Priore inizia ad orientarsi verso spazi espositivi alternativi desiderando l’interazione tra arte, pensiero ed anche convivialità senza ridurre il tutto a mero commercio. Negli anni Luigi Priore ha vissuto una vita da viaggiatore girando in lungo e in largo i quattro Continenti guardando ogni sasso, ogni fiore con gli occhi meravigliati di un bambino, ancora oggi ha il piacere, il gusto e l’incantamento del viaggio. Di recente si è trasferito a Gorizia, dove attualmente vive e lavora.
Proviamo a conoscere meglio il Maestro Priore ponendogli alcune domande:
Come nasce il suo linguaggio artistico?
Nasce negli anni della giovinezza attraverso una serie di esperienze che mi hanno portato a vivere a pieno quel desiderio di libertà e di scoperta itinerante della natura. Dopo aver assorbito intimamente queste esperienze che, nascono ancor prima di elaborare un quadro sia sottoforma di versi che attraverso il medium pittorico, cerco di rappresentarle in paesaggi immaginari, per far si che possano essere condivise in maniera esistenziale da tutti.
Cosa le è rimasto di quel singolare crogiuolo culturale che è stato la Scuola di Piazza del Popolo a Roma?
Ho avuto la fortuna di essere a Roma negli anni sessanta e settanta,in un periodo in cui la capitale era il non plus ultra dell’arte contemporanea. Frequentando i grandi artisti dell’epoca, mi è rimasto probabilmente, quel qualcosa che perduri nel tempo, ad esempio il desiderio d’immortalità conscio o inconscio che sia, e che ognuno di noi vorrebbe nelle proprie opere. Ricordo con piacere gli aperitivi al Caffè Rosati con De Chirico, le giocate a poker con Paola Borboni e Mario Scaccia, le feste con Villaggio nella villa di Tognazzi e poi le serate all’insegna del kich con la pittrice Novella Parigini.
In un mattino romano del ’70 il mio linguaggio subisce una virata, divenendo un palinsesto di rocce, acqua, ghiaccio, con una sintesi di costruzione di linee e di masse al limite dell'astrazione metafisica con atmosfere post-romantiache. Tutto ebbe inizio con un sogno e da lì iniziai a dipingere le Città Spore e, successivamente i Mondi di pietra, Mondi di Ferro e da quel momento è avvenuta una mutazione completa fino ad arrivare ai tempi d’oggi.
Questa è una domanda alla quale non posso rispondere, penso che sulla Terra esista una moltitudine di Eden frammentari. A volte riusciamo a trovarli, anche solo per un secondo, un attimo o per qualche giorno, ma spesso sono effimeri come le nostre vite. Beh chissà forse un domani qualcuno mi dirà che esiste un Eden con immensi prati in fiore. L’importante è che ci sia un Eden per me e per gli altri uomini di buona volontà.
Ha timore dell’infinito figurativo?
No affatto! penso che il mio essere sta a cavallo del tempo. Spesso ricevo opinioni differenti sui miei quadri dato che, qualcuno parla di angoscia perché all’interno di queste figurazioni, non vi è la minima presenza dell’essere umano, anche se ci sono i manufatti che raccontano le loro gesta. Altri invece pensano che essi trasmettano la serenità e quel desiderio di un qualcosa di pulito, un qualcosa da ricostruire per rinascere. Qualcun altro, ed è il caso di questa antologica, mi ha riferito che queste tele esprimono un Tempo non definito, all’interno del quale si vive nell’incertezza di un Tempo che è già avvenuto oppure che dovrà ancora avvenire. Trovandomi in questa situazione di operare non ho affatto paura, anzi magari ci fossero delle risposte, ma a noi mortali non è permesso saperlo.
Per la critica lei è un arista metafisico, surreale e a volte romantico. A quale “movimento” novecentesco si sente particolarmente legato?
Mi ritrovo molto in una definizione; un critico ha parlato di me come il “Traslatore dell’Inconscio” e in fin dei conti lo sono sempre stato, perché i miei sono paesaggi che escono dall’interno, sottoposti ad interpretazioni personali, ma anche allo stesso tempo, a sentori che arrivano dall’esterno,non rappresentano mai un paesaggio fine a se stesso. Sono semplicemente sensazioni interiori che vengono espresse da desideri. La mia pittura nasce da quella degli Impressionisti, ma ammiro anche Magritte e Dalì e amo la confraternita dei Preraffaelliti, ma se devo dirla tutta, non mi avvicino ad una corrente particolare anche se il segno può essere quello metafisico o del surreale. Il mio messaggio figurativo va oltre, vi è un altro passaggio, quello della sensazione interiore che se affiancata a quella dell’immagine stessa, giova un fattore di distanza in quest’ambito.
Sono stato direttore per tre anni ed in questo periodo ho avuto il piacere di incontrare veramente dei bravi artisti nel territorio; l’unica pecca era che per la maggior parte di questi artisti, vuoi per costituzione e vuoi per vocazione non insegnano qualcosa al pubblico e non si adeguano alla richiesta loro richiesta. Prevale quella parte di artigiano che è presente in tutti noi e che non combatte come è accaduto negli anni settata al sottoscritto, per professare ciò che volevo esprimere. Ad Otranto ci sono dei buoi artigiani pur essendo dentro dei validi artisti ed è veramente un peccato che non esprimano al massimo il loro fare artistico. A Lecce ho rivisto una città rinata dopo un periodo grigio e amorfo. La Città invece sta diventando più selettiva ma, non parlo di personaggi, ma come cura del paesaggio, come cura alla ristrutturazione del palazzo ecc..è una città che ha voglia di fare e di mettersi continuamente in gioco.
A mio parere Luigi Priore predilige una pittura di paesaggio peculiarmente visionaria, vissuta con gli occhi della mente e percepita figurativamente come loco unicum. Il Maestro ospita i fruitori a bordo dei suoi vascelli che,disegnati con segno veridico,navigano verso quell’infinito crinale immaginifico,liricamente narrato mediante fulgide tecniche coloristiche, similari agli sconcertanti scenari di quella natura a tratti fiabesca, indagata e alterata dall’eclettico artista giramondo.
Intervista ad Antonio Caprarica
Elegante, come del resto nel suo stile, è stata la conversazione con Antonio Caprarica, ex direttore di Radio 1 e dei giornali Radio Rai, che da quest’anno ha oltrepassato la Manica ed è rientrato nella sua vecchia e amata Londra come corrispondete per il Tg1. Nella sua ultima pubblicazione, “I Granduchi di Soldonia”, l’autore racconta di un viaggio alla scoperta dei nuovi ricchi, tra finanza selvaggia e ostentazione, sfruttamento selvaggio del lavoro e manovre sporche. L’occasione è buona per parlare dei granduchi del Belpaese, i quali “si guardano bene dalla tentazione del lusso ostentatorio, tipica dei nuovi ricchi”, afferma il giornalista salentino. Durante la piacevole chiacchierata, Caprarica ha ricordato come il giornalismo, che in teoria dovrebbe essere il cane da guardia della politica, finisce per esserne “il cane da salotto”. Affermazione certamente a ragion veduta, considerate le riflessioni che il giornalista fa sul suo rapporto con la politica e con gli organi parlamentari di vigilanza e controllo. Non sono mancati i riferimenti al mondo dell’arte contemporanea e le critiche ai miliardari che “forzatamente pompano il mercato dell’arte”. La breve disamina sul mondo della comunicazione è stata arricchita da alcuni consigli spassionati per noi lettori, radio ascoltatori, telespettatori e internauti, sempre alla ricerca della “notizia”.
No, non arriverà mai, e spero che non arrivi perché l’Informazione è una merce un po’speciale, a me non piacciono i giornali che non vanno a confrontarsi con il gradimento del pubblico e non mi piace la TV che non cerca l’audience. L’importane è non essere schiavi dei diktat dei pubblicitari, e produrre solo in funzione della commercializzazione. Si tratta di gradi diversi di controllo e di presenza sul mercato, ma non mi pare auspicabile un’informazione da stato epico. Un esempio che mi viene in mente è quello della Pravda, finchè era in piedi l’Unione Sovietica, il giornale vendeva, senza alcun bisogno di pubblicità, diciassette milioni di copie, quando è crollato il regime, il numero è sceso a diciassette mila copie. E’ evidente che la gente non lo voleva più leggere.
Parliamo del rapporto tra giornalismo e politica, il giornalismo è il cane da guardia della politica o ne è servo per ottenere benefici?
Il giornalismo dovrebbe essere il cane da guardia della politica, ma spesso è il “cane da salotto” della politica. Quando fui nominato direttore di Radio 1 e dei giornali radio rai di Roma, come da prammatica, la commissione parlamentare di controllo e vigilanza della Rai, mi convocò per gli editoriali. Dopo averli esposti, aggiunsi che si trattava di una convocazione inusuale e inaccettabile in qualsiasi Paese democratico, infatti in altri casi, sono i giornalisti a controllare ciò che fa il potere e non viceversa. La mia reazione scatenò delle polemiche, perché la politica italiana non si è ancora abituata a sopportare le differenti opinioni della stampa.
In merito alla sua ultima pubblicazione “I Granduchi di Soldonia” cosa pensa dei Granduchi del Bel Paese?
I Granduchi del Bel Paese sono poco più di una dozzina, ed è pur qualcosa, che un numero cosi ridotto di persone portino tutte lo stesso cognome, Benetton. Le caratteristiche del capitalismo italiano rimangono fortemente attaccate a quell’impronta familistica che è alla base della società Italiana. I Granduchi Italiani non si buttano direttamente sui monopoli, tanto per citarne qualche nome, penso a Moretti Polegato che ha inventato il marchio Geox da una semplice idea, Ferrero che è il primo dei miliardari italiani e che adopera parte dei suoi capitali per iniziative altamente sociali e filantropiche; ma a differenza dei loro colleghi russi, indiani o cinesi, i granduchi del Bel Paese si guardano bene dalla tentazione del lusso ostentatorio, che è un po’ tipica dei nuovi ricchi.
Come giudica gli investimenti nell’arte da parte dei neo-miliardari globali?
Penso che qualunque cosa incentivi la ricerca del Bello e del mercato dell’arte sia la benvenuta, ma sono molto critico nei confronti dei grandi miliardari che pompano forzatamente il mercato dell’arte. Un esempio: Charles Saatchi ha inventato in Gran Bretagna la Young British Art, una generazione di nuovi artisti, alcuni certamente validi e altri decisamente meno. Se dovessi pagare decine di milioni di sterline per allestire le opere “in formalina”, come ad esempio lo “squalo”di Damien Hirst, direi che “è una roba che non sta nè in cielo, nè in terra”.
Dalle ultime osservazioni economiche il Salento risulta in una situazione statica. In che modo il nostro territorio può reagire alla recessione?
I salentini hanno intelligenza da vendere, ed è bene che la mettano in campo. Il resto lo faranno la società civile, il gusto del Bello che non ci manca e la capacità di sfruttare al meglio tutte le benedizioni che la natura ci ha regalato, ma che molte volte vengono ignorate.
Cosa ne pensa della questione Pugliese alle prossime elezioni Regionali?
Sinceramente, se vuole sapere il mio parere, mi sento molto rattristato dalla rissosità della classe politica Pugliese.
Secondo Lei, l’Italia è ancora un Paese arretrato rispetto alle grandi potenze europee?
Guardi, Vitiliano Brancanti negli anni cinquanta scriveva: “ gli italiani sono pronti a tutto, perfino a fare la Rivoluzione, pur di rimanere arretrati”. Credo che rispetto a quei tempi la situazione sia un po’ cambiata, ma resta il fatto che rispetto ai grandi Paesi con la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, l’Italia ha ancora alcuni limiti, gravi fattori di arretratezza: l’inefficienza delle strutture statali, una rete infrastrutturale inadeguata e un mercato dei capitali e del lavoro debole e indolente.
Lei è stato direttore di Radio 1 e dei giornali radio rai, e ha creato notevoli e variegati programmi culturali come: “Tornando a casa”, “Radio city”, “Radio anch’io” e “Nudo e crudo”. Crede che la programmazione della televisione Italiana abbia bisogno di una buona dose di cultura per alzare il livello che negli ultimi anni si è impoverito?
Credo che il livello della televisione italiana abbia bisogno di un adeguato sostegno culturale, ma come dice Don Abbondio, “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”.
Biografia: Antonio Caprarica (Lecce, 1951), giornalista e saggista. Si laureato in Filosofia con Lucio Colletti, ha iniziato la carriera giornalistica come commentatore di politica interna dell'Unità ed è stato in seguito condirettore di Paese Sera. Tra il 1988 e il 1993 è stato prima inviato, poi corrispondente stabile del Tg1 dal Medio Oriente, coprendo avvenimenti come la jihad antisovietica in Afghanistan, la prima Guerra del Golfo e l'intifada palestinese. Dal 1993 è stato a capo dell'ufficio di Corrispondenza della Rai da Mosca, che ha lasciato nel 1997 per ricoprire lo stesso incarico a Londra: in Gran Bretagna è rimasto quasi un decennio - quello di Blair - che ha condensato nel suo libro Dio ci salvi dagli inglesi¿ o no!?, vincitore del Premio Gaeta per la letteratura di viaggio e tra i best-seller del 2006. Dal marzo al dicembre
Ultimo libro pubblicato nel 2009 “I Granduchi di Soldonia” edito da Sperling & Kupfer Editori.
Joan Mirò–Ilsegno e la parola- Opera grafica
Castello Aragonese di Otranto
Otranto (LE) - Dal 27 giugno al 27 settembre 2009 le stanze del Castello Aragonese di Otranto ospitano la mostra “Mirò, il segno e la parola, Opera grafica”.
La personale dedicata all’opera grafica del grande artista catalano, è stata organizzata dalla società Cooperativa Sistema Museo di Perugia e dall’ Agenzia di comunicazione Orione di Maglie.
L’organizzazione strutturale della suddetta rassegna, è stata concepita attraverso una selezione di litografie, allestite all’interno di due sale contigue del Castello.
Sono in tutto 72 le opere della prima sala illustrate da Mirò che si ricollegano a Parler seul, l’omonimo poema scritto tra il 1948 e il 1950 da Tristan Tzara poeta e saggista romeno, fondatore del Dadaismo.
La seconda raccolta contiene 13 tavole litografiche eseguite nel 1966, e intitolata a Ubu roi, personaggio grottesco, il quale rappresenta la caricatura di ogni abiezione umana; la serie è ispirata dall'opera teatrale omonima di Alfred Jarry del 1896.
Il grande successo di pubblico ha suggellato il lodevole lavoro degli organizzatori, i quali sono riusciti ad avviare una forte politica di rilancio del Castello, che prevede un programma triennale di mostre incentrato sulla produzione grafica di alcuni dei maggiori artisti del Novecento.
In questo caso, i curatori hanno proposto e divulgato un frammento poco noto al grande pubblico, dell’immensa produzione artistica di Joan Mirò.
All’interno del complesso aragonese, dopo essere passati per l’arioso cortile, una scalinata introduce al “piano nobile”; giunti nell’anticamera dell’esposizione sono presenti solo due pannelli informativi, il primo relativo alla biografia dell’artista, e il secondo che esplica in maniera concisa l’intento del curatore.
Entrambe le sale si presentano sterili, con una eccessiva illuminazione e calde, la chiusura delle finestre e l’assenza di fonti d’aria artificiale, rendono insopportabile la fruizione delle opere stesse.
L’inadeguato allestimento, ha attribuito all’importante opera grafica, un immeritato senso d’incomprensione nei confronti del grande pubblico. L’aggiunta di pannelli, all’interno delle due sale espositive, forse avrebbe esplicato in maniera più esaustiva la relazione auspicata nel titolo della mostra: “il segno e la parola”, e avrebbe reso più scorrevole e leggera la lettura dell’intera esposizione.
Nella mostra in questione, il rapido segno grafico dell’artista catalano, si dissocia dalla parola espressa in lingua francofona usata nei versi di Tzara, aumentando in questo modo, il divario concettuale tra l’arte contemporanea e il pubblico di visitatori e turisti, che vengono richiamati all’attenzione dal “nome”dell’artista. L'idea stessa di mostra-evento è ineluttabile, ed è in un'occasione come questa anche un suo limite,di contro, invece di rinchiudere l’arte contemporanea tra i bastioni edificati dagli “addetti ai lavori”, si dovrebbe abbassare il ponte levatoio della pubblica comprensione a tutti i potenziali fruitori.
Giuseppe Arnesano
Joan Mirò 1893- 1983: cenni biografici