venerdì 11 marzo 2011

Che casotto la Vita

pubblicato sul Il Paese Nuovo l'11marzo 2011


Cinema/ "Tutti al Mare"




Oggi, venerdì 11 marzo il debutto nelle sale del regista Matteo Cerami. In programmazione a Surbo per “The Space Cinema” e al “Pianeta Cinema” di Nardò

La pellicola racconta la storia di Maurizio (Marco Giallini)
che ogni mattina accompagna il padre in carrozzella al suo chiosco
in spiaggia. La sua attività è pronta per decollare dopoche i suoi
inservienti, Khaled e Omar, hanno issato in cima alla costruzione
la bandiera italiana. Quali clienti arriveranno al chiosco di Maurizio?

Intervista al regista Matteo Cerami/

Il colore arancio dell’alba si dilata nell’immensità di un azzurro cielo sul litorale romano; questa non è solo l’immagine della prima scena del film “Tutti al Mare” del giovane Matteo Cerami, ma è anche l’alba del suo esordio alla regia. Un esordio al limite tra il reale ed una magica atmosfera dei tempi andati; il film è costellato dai grandi nomi del cinema italiano a cominciare da Gigi Proietti, Ninetto Davoli, Ennio Fantastichini, Sergio Fiorentino, Ambra Angiolini, Marco Giallini, Ilaria Occhini e Vincenzo Cerami che tra l’altro ha firmato, insieme al figlio la sceneggiatura del lungometraggio; il cast è arricchito inoltre da altrettanti bravi attori come Libero de Rienzo, Francesco Montanari, Claudia Zanella, Elena Radonicich. Una commedia agro-dolce che fa riflettere sia sul vero senso dei piccoli gesti e sia su determinati cammei che ripropongono brani dell’attuale società contemporanea. Il caratteristico chiosco sulla spiaggia di Castelporziano, gestito dal proprietario Maurizio (Marco Giallini), è un micro mondo all’interno del quale si incontrano, ruotano e si avvicendano storie e personaggi “coralmente” raffiguranti l’italietta/multietnica di oggi.
In occasione della conferenza stampa del film abbiamo incontrato il regista Matteo Cerami e scambiato “due chiacchiere” con Gigi Proietti.

Opportunità e “fastidi” dell’essere figlio d’arte?
Si fa un gran parlare dei figli d’arte, nel bene e nel male. Io non l’ho mai vissuto come un complesso, né un ostacolo. Sono cresciuto tra muri che sudavano cinema, letteratura, teatro, poesia, nella bottega di un artigiano del racconto, che, scalpello alla mano, ho visto lavorare con umiltà per anni, gomito a gomito con alcuni tra i più grandi registi del nostro cinema. Mi sento il figlio di un fabbro, e trovo naturale e giusto che, se quella di “famiglia” è la strada che ho scelto di percorrere, possano giovarmi tutti gli insegnamenti che ho ricevuto, senza complessi di alcun genere. D’altra parte chi meglio del figlio del fabbro può conoscere il ferro e le tecniche per forgiarlo? Tutto dipende dal rapporto che hai con tuo padre.
Che rapporto hai con tu padre?
Io ho un rapporto meraviglioso con lui: ho uno scambio alla pari, un confronto sempre stimolante; la differenza di età è sostanziosa (quarant’anni) e questo impedisce qualsiasi rivalità. Abbiamo tutti e due da dare qualcosa all’altro. Così, è nata una “ditta”. E, finché funzionerà, continueremo a mandarla avanti.
Matteo Cerami durante le riprese del film
Come nasce l’idea del film?
L’idea del film nasce dal produttore di “Casotto”, Gianfranco Piccioli, che dopo 34 anni ha voluto tentare di ripetere l’esperienza del film di Citti: mettere su un film inventato dal niente, raccogliendo un cast incredibile e di grande qualità, girato all’interno di quattro pareti in poche settimane. Una sfida che “Casotto” ha vinto grandiosamente, essendo diventato un cult anche per generazioni come la mia, che 34 anni fa non erano ancora nate. Così, Piccioli è tornato da mio padre con questa folle idea. Papà era un po’ scettico, io invece entusiasta.


Come è stata la fase della scrittura a quattro mani?

Molto veloce e divertente. Quando si scrive un film di genere comico, s’improvvisa di continuo. Uno recita all’altro una situazione, uno scambio di battute, e, a seconda di come l’altro reagisce, si decide se tenere qualcosa di quelle fiammate, o buttare via tutto. Poi, pian piano, il film prende una strada, uno stile, un senso. Il cammino di “Tutti al mare” si è fermato per quasi un anno per colpa del blocco del FUS. Quando ho ripreso la sceneggiatura in mano, l’ho riletta e ho capito che cosa avevamo fatto. L’ultima scrittura è stata fondamentale e decisiva.
E’ stata dura dirigere 35 personaggi?
Ho sempre avuto il film bene in mente. Sapevo anche i rischi che potevo correre: cadere nel metafisico (un luogo unico in cui tutto accade è sempre metafisico), o risultare troppo superficiale, macchiettistico (i personaggi raccontati in tre scene sono spesso sopra le righe). Per questo ho scelto un cast in base allo spessore degli attori, e ho avuto una grande fortuna, perché tutti hanno capito quello che stavo facendo, ed hanno aderito con altrettanto entusiasmo. A volte ho cercato di guidare gli attori verso “la verità” dei personaggi, a volte ho rubato un po’ della “verità” a quegli attori che li incarnavano.
Nel cast sono presenti tanti bravi attori del cinema italiano, ma come è stato dirigere personalità come Gigi Proietti, Sergio Fiorentini, Ennio Fantastichini e Ninetto Davoli?
Di regola, più gli attori sono bravi, più è facile dirigerli. Inoltre, in un film corale, molto corale come questo, tutti gli attori sanno dall’inizio che non devono portare il film sulle loro spalle, da soli. Vengono sul set con l’umore giusto, con l’idea di divertirsi, e di dare il loro piccolo ma fondamentale contributo al film, senza timore e senza affanno.
Nel film vi è una costante interazione tra uomini e animali, ci spieghi il motivo?
“Tutti al mare” vuol essere un affresco divertito, sagace e anche un po’ terrificante del popolino italiano che ogni estate si riversa in spiaggia come scarafaggi. Non è un ritratto psicologico, ha più lo stile di un’osservazione antropologica. Sotto quest’ottica, il chiosco prende la forma di un acquario pieno di pesci che si credono in alto mare, mentre invece nuotano dentro un barile. Alcuni fanno le bizze come cavalli sbrigliati; altri si nascondono sotto gli ombrelloni come topolini impauriti. Infine, c’è chi si sdraia al sole come balene spiaggiate. Mi dica se non sembrano animali!
Perché far uscire il film a Marzo invece di quest’estate?
Il film è stato girato a maggio-giugno per un motivo assai ovvio: è praticamente un esterno continuo. Ad agosto, era impossibile fare le riprese, dato che le spiagge diventavano impraticabili. A settembre, molti attori erano occupati. La postproduzione è stata molto lunga e laboriosa, per ragioni non solo dovute al film. La prima copia è stata stampata poche settimane fa. Per cui il film era pronto adesso. Ci sono tre risposte possibili alla sua domanda. Le prime due sono di ordine puramente mercantile, che le darebbe qualsiasi distributore: “non si tiene un film nel cassetto per così tanto tempo”, e “d’estate la gente va al mare, non al cinema”. L’altra, più disinteressata, che le do io, è che il cinema non è la televisione. Se fuori nevica, al cinema voglio vedere il sole. Pensi al successo dei film di Natale…
Come nasce il personaggio dell’uomo del pappagallo interpretato da Vincenzo Cerami?
L’umanità che passa per il chiosco è assolutamente casuale: è la gente, o, come si dice, la massa, che va al mare. Tutti i personaggi che abbiamo inventato sono frutto di improvvisazioni, non c’è una parabola o una metafora, nella selezione che abbiamo fatto. La metafora risiede più nel quadro generale, in cui, appunto, questo chiosco prende la forma di un microcosmo. E più i personaggi sono distanti l’uno dall’altro, più il microcosmo appare vario e imprevedibile. A noi interessava più il pappagallo, ovviamente. Nell’idea di dare un’immagine più creaturale che sociologica del popolino in vacanza, ci piaceva inserire questo uccellaccio antipatico, che ripetendo ossessivamente lembi di frasi sentite tutto il giorno nel chiosco, faceva da eco alle fregnacce della gente, prendendosi gioco di essa, ma alla fine, in qualche modo, rendendole anche omaggio.
Per quanto riguarda “il suicida” messo in scena da Ennio Fantastichini, che cosa ci puoi raccontare?
Il personaggio di Ennio è tra tutti il più misterioso. Rimane inspiegato il suo delirio e la sua vicenda personale agli altri personaggi così come a noi spettatori. Eppure, nelle sue parole – in gran parte citazioni dell’Ecclesiaste – sono raccolte altissime verità, che nessuno coglie, poiché impegnato nella sua giornata di mare senza pensieri. È preso per un pazzo, debosciato, forse un criminale. Ma è l’unico che dice cose vere e belle.
Come vedi la “piccola borghesia” nell’era dalla globalità?
L’umanità di “Casotto” era figlia della guerra e della fame, entrava nell’era del benessere cocomero in mano e sporta piena di cotolette sotto l’ascella, nella cabina collettiva, piccolo rifugio al riparo dagli sguardi indiscreti di tutti – tranne che dalla macchina da presa di Citti, – i bagnanti anni ’70 si svestivano della maschera di piccolo borghese e al chiodo lasciavano appesi segreti, vergogne, grettezze, per mostrarsi nudi come natura li aveva fatti. Quando si buttavano in mare tornavano liberi, bambini. Oggi la fame è sparita, è diventata bulimia. Il benessere non è più una conquista, bensì una pretesa, e, in fin dei conti, una magra consolazione rispetto ai sogni irraggiungibili che ci propina la pubblicità. Siamo attaccati alle nostre magre ricchezze e viviamo col terrore di doverle restituire, prima o poi, a qualcuno più degno o più furbo di noi. Non andiamo più al mare per spogliarci, ma per continuare a recitare la commedia della vita. Perché nudi non siamo più nessuno. Il mare ha smesso di essere un orizzonte blu pieno di possibilità, è diventato una minaccia. È “zozzo”, schiumoso, tiepido, transgenico e ogni giorno deposita sulle nostre coste gente che fugge dalla disperazione e approda in Italia, piena di sogni, come eravamo noi trent’anni fa. Ecco, i loro sogni, oggi, a noi fanno paura.
Nel 2001 sei stato assistente alla regia di Roberto Benigni per Pinocchio, come è stata quest’esperienza?
Le riprese di “Pinocchio” sono durate più di sei mesi. È forse il film italiano più costoso che sia mai stato realizzato. A prescindere dal risultato, in quei sei mesi, intorno a Benigni si è concentrato il meglio del meglio del cinema italiano: artisti di altissimo livello e tecnologia all’avanguardia. L’esperienza di quel set mi ha insegnato non solo la “macchina” cinema, ma mi ha dato anche la possibilità di vederla manovrare da professionisti di serie A. È stato fondamentale per la mia formazione non solo di regista, ma anche e soprattutto di sceneggiatore.
Quale è il tuo approccio alla scrittura e cosa ti affascina?
Come ho già detto, sono cresciuto nella bottega di un artigiano, mio padre, che ha avuto da giovane, come mentore, Pasolini. Pasolini ha usato tutti i linguaggi conosciuti per esprimere la sua poetica: letteratura, teatro, saggistica, cinema, poesia… Mio padre ha fatto ricchezza di questo insegnamento e anche lui spazia dal romanzo, al dramma, al film, al fumetto. Vedendolo lavorare, ho imparato che ogni racconto ha un suo stile, ogni stile una sua lingua prescelta. Ci sono storie adatte al cinema, storie che esistono solo nella parola scritta, storie che richiedono una messa in scena, magari muta, o cantata, chissà. Questo “approccio” è affascinante per me, perché è libero. Ogni linguaggio ha i suoi vincoli, le sue regolette da manuale, ma non vanno vissute come ostacoli, bensì come strumenti, come sfide.
Cosa pensi dell’attuale commedia all’italiana?
La recente esplosione di commedia italiana nel panorama cinematografico degli ultimi due anni è sicuramente un evento felice, perché contribuisce a rinnovare l’affezione degli spettatori verso il cinema. Il mio timore è che d’ora in avanti e chissà per quanto tempo ancora, produttori e distributori rifiuteranno qualsiasi altro genere di film.
Come è cambiata la comicità dagli anni settanta ad oggi?
Come diceva Monicelli, la vera commedia ha un finale amaro. Quello che vedo uscire ultimamente di rado accoglie e rispetta questa caratteristica. L’appeal maggiore è quasi sempre televisivo (basti pensare agli interpreti, tutti figli del piccolo schermo), la confezione è color pastello, il risultato spesso superficiale. Anche il genere trash non trova degni discepoli. Ma per questo dilemma credo di avere una risposta: non ci sono più i caratteristi, perché oggi, molto semplicemente, non ci sono più i “caratteri”. Ciò detto, ci sono autori di grande livello, penso per esempio a Virzì, che le parole di Monicelli non le ha ancora dimenticate.
Quali film guardi al cinema?
Ho due figli, e per fortuna molto lavoro. Purtroppo molti film li vedo in dvd. Quando riesco a prendere una boccata d’aria per andare al cinema, è quasi sempre davanti alla biglietteria che faccio la mia scelta. In genere scelgo quello nella sala più piccola, perché so che la prossima volta che potrò uscire di casa, non ci sarà più. E non ha idea di quanti capolavori ci sono, nelle sale piccole…
L’ultimo film che hai visto?
Mi pare “Immaturi”. E prima ancora: “La versione di Barney”. Ma quello che mi ha colpito di più è stato “Cosa voglio di più”, di Soldini. Bellissimo.
Cosa pensi sul cinema “made” in Puglia?
Cosa intende per cinema “made” in Puglia? Film ambientati in Puglia come “Mine vaganti”, o film di pugliesi come “Che bella giornata”? Per me non esiste il cinema regionale… Esiste il Cinema, che è il linguaggio della realtà, e, in quanto tale, ha bisogno di nutrire i suoi racconti con la realtà la quale può essere pugliese, laziale, milanese, o siciliana… Come vede, le ho citato due film ben distanti tra loro. Ciò detto, io amo la Puglia e ho dei ricordi bellissimi della vostra terra. Ha una cultura forte, antichissima, di gran carattere. E il paesaggio è magico. Un regista a caccia di personaggi e ambientazioni non ha difficoltà a trovarne in Puglia. Ma per conoscere la vostra terra, bisogna venirci di persona, non bastano due ore per raccontarla.
Dopo questo lavoro quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho in cantiere due progetti diversissimi tra loro. Ahimè, non sono commedie…Uno sta venendo fuori come un thriller. È ispirato a una storia vera: ha per protagonista un falsario che negli anni ’70 è finito nelle mani dei servizi segreti italiani. L’altro invece è più “agganciato” all’oggi: parla di escort, è una storia di amore e potere. Come se raccontassi Ruby in un romanzo di Zola.

Tre battute con Gigi Proietti/

Perché ha scelto di fare questo personaggio?
Diciamo che capita di fare sempre personaggi comodi e questo l’ho fatto molto volentieri ed inoltre ho ritrovato vecchi amici.
Meglio interpretare i piccoli e mirati ruoli al cinema oppure quelli da protagonista in teatro ed in televisione?
Beh all’età mia fare determinati ruoli è conveniente perché si fatica molto meno- risata- e se il risultato è buono, ed in questo mi auguro che il film lo sia, con poca fatica si ottiene tanto; ma alla fine questo è il risultato che vogliono tutti dai grandi fisici ai grandi “meccanici”– risata- scherzo ovviamente non è che non mi piacerebbe fare ruoli sostanziali anzi, però secondo me è importante e da molto “gusto” riuscire a far ridere.
Cosa pensa e cosa manca alla commedia all’italiana?
Il fatto che la “commedia” in questo momento, chiamiamola “commedia”, costituisca un traino per il cinema italiano è sempre successo, non capisco perché ci si stupisca; anzi io mi stupivo quando la commedia non trainava più; la commedia all’italiana ed i film che un tempo erano considerati di serie B, rivalutati tempo fa anche da Tarantino, sono tutte cose che stanno nell’ambito della commedia, ma questo non riguarda solo “il caso italiano”. A volte quando si sente, come mai i film tragici non funzionano più come prima ? -risposta- Ma quanno mai – risata-.

Giuseppe Arnesano